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Mario Draghi non ha bisogno di candidarsi ad alcunché, neppure al ruolo di salvatore della patria (e della sua economia), caso mai sarebbe tentato dal difendersene e prenderne le distanze. Se si è deciso a prendere la penna e a scrivere al Financial Times è stato per la preoccupazione della crisi economica provocata dalla pandemia del Coronavirus e soprattutto per la preoccupazione di una divisione dell’Unione Europea fra paesi del Nord e dell’Est e paesi del Sud e dell’Ovest.

Per questo e non per altro ha messo in giuoco e fatto valere l’autorevolezza conquistata quando da governatore della BCE annunciò che sarebbe stato fatto “tutto quanto era necessario” per salvare l’euro dalla crisi del post 2008: la scelta a cui si è ora allineata, dopo qualche incertezza e ambiguità iniziale, anche la nuova governatrice della BCE, Christine Lagarde.

È intervenuto per dire che anche ora “va fatto tutto ciò che è necessario” per salvare l’Unione e la sua economia. E non si salva né l’Unione né la sua economia, lasciando da soli e abbandonando a sé stessi (e perfino alle loro perversioni e incapacità) gli Stati più deboli di fronte alle conseguenze di questa crisi.
Ha messo in gioco la sua autorevolezza e il suo prestigio non per insidiare Conte, secondo una meschina visione italocentrica, ma per rivolgere un appello implicito ad Angela Merkel e richiamarla al ruolo che è sempre stato della Germania nel tutelare l’unità dell’UE, da quando Kohl e Mitterrand guidarono l’Europa al trattato di Maastricht e alla promozione della moneta unica. Draghi sa benissimo che oggi la Merkel può apparire (e forse è) indebolita all’interno del suo partito, ma sa anche che ancora una volta è solo da lei che può venire la scelta decisiva per salvare e rilanciare l’Unione.


Sbaglierebbe chi volesse attribuire a Draghi, quando chiede un forte intervento pubblico di fronte allo shock provocato dalla pandemia, l’intenzione di cancellare gli errori che sono stati commessi dagli ultimi governi e dall’attuale, con le loro scelte assistenziali e clientelari e la loro mancanza di rigore. O l’intenzione di avallare scelte incomprensibili come quelle di rifiutare il ricorso allo strumento e ai fondi del MES, che sembrano unire oggi Salvini e Meloni, ed anche Di Maio e gran parte dei 5 Stelle.
Io credo invece che Draghi non condivida questo folle veto così come non condivide certamente il veto degli stati del Nord agli eurobond.

Sulla base di ciò che a suo tempo ha fatto con il quantitative easing (avversato dalla Bundensbank tedesca), io credo che con il suo appello abbia voluto dire ai governanti europei che oggi vanno messi in atto tutti gli strumenti che hanno a disposizione (MES ed eurobond, oltre al quantitative easing della BCE), nessuno escluso. E dunque la sua lettera non è una insidia a Conte ma caso mai paradossalmente proprio il contrario: un aiuto che gli viene dato, nonostante i suoi errori di comunicazione, i suoi ritardi, la sua goffagine, nei rapporti difficili che deve affrontare in questi giorni con gli altri partner dell’UE ma anche con i suoi amici 5 Stelle.