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La riforma costituzionale di Renzi fu un tentativo complesso, teso al superamento del bicameralismo perfetto, alla creazione di un Senato delle Regioni senza legami di fiducia con il Governo, al superamento degli errori di frammentazione del Titolo V, alla realizzazione, quindi, di un neo-parlamentarismo più europeo e funzionale.

La “riforma” ispirata dal Movimento 5 Stelle, invece - una “semplice” riduzione del numero dei parlamentari – è priva di un approccio articolato e diretto alla funzionalità delle Istituzioni, e non si tratta solo del mancato superamento del bicameralismo ma anche della disattenzione nei confronti dei regolamenti parlamentari e per una legge elettorale davvero funzionale al nuovo assetto “ridotto” del parlamento italiano.
È ovvio che, impostato originariamente in tal modo, il Partito Democratico avesse sin da subito rigettato l’approccio condiviso da Di Maio e da Salvini e votato contro, fino alla crisi del governo Conte 1.

La riforma originaria, priva di correttivi – correttivi che sono stati poi oggetto dell’accordo politico che ha dato avvio all’esperienza del governo giallo-rosso – mina il rapporto tra eletti e elettori, toglie rappresentanza ad interi territori e lede le dinamiche di democrazia parlamentare.
Il fondamento ideologico del solo “taglio di poltrone e stipendi”, infatti, è sicuramente populistico e demagogico, è un fondamento che svela quel riflesso plebiscitario, strettamente legato alle verità del capo carismatico, fin dall’inizio spacciato come forma aggiornata di democrazia diretta, senza che di democratico e di diretto ci fosse alcunché.
Del resto si è tentato, con questa mossa politica d’affermazione epocale dei principi grillini, di sollecitare i riflessi più antipolitici dell'elettorato italiano, mistificando una riforma costituzionale estremistica, spacciandola come una semplice sforbiciata dei costi propri di una pubblica amministrazione inutile.
Il parlamentare, infatti, secondo questa retorica, o meglio, il parlamentare che non sia un semplice portavoce del capo (un esecutore soggetto a mandato vincolante dei vertici del Movimento) è considerato propriamente come un peones dedito solo alla costruzione della propria carriera, della propria pensione e, quindi, consacrato all’ arricchimento personale.
Poi, come sappiamo, tutto è cambiato con il nuovo governo Conte e con il nuovo patto politico tra democratici, grillini, renziani e la sinistra di Leu.

Ed oggi, il passo indietro fatto da Italia Viva rispetto all’accordo di Governo “correttivo”, relativo innanzitutto alla legge elettorale proporzionale, con la rinnovata insistenza di Renzi per il sistema maggioritario, porterebbe, in caso di conferma popolare della legge di riforma, ad un effetto ipermaggioritario del combinato disposto tra la riforma stessa e la legge elettorale “mista” in essere: con una sproporzione rispetto al potere del Governo sul Parlamento e dei Capi Partito sulla determinazione degli eletti alla Camera e al Senato, con uno stravolgimento della base elettorale del Presidente della Repubblica, con in più il rischio del venir meno di quella autonomia tipica del parlamentare che, di certo, porterebbe a gravi squilibri – anche per il deficit di rappresentanza in tante Regioni – con riferimento, ad esempio, a possibili successivi interventi di riforma costituzionale.
È chiaro, quindi, che questo ritorno al passato, l’avvicinarsi dell’appuntamento referendario senza l'approvazione della nuova legge elettorale proporzionale, senza la revisione delle circoscrizioni del Senato necessaria a garantire le regioni minori, senza la parificazione della base elettorale delle due camere e dell’elettorato attivo e passivo, senza l’avvio della riforma dei regolamenti parlamentari – tutte necessarie integrazioni e prospettive condivise di fondamentali interventi a tutela della rappresentanza – non può che aumentare, a mio parere, la responsabilità dei democratici e dei riformisti, legittimando - in re - l'elettorato progressista nella scelta conseguenziale di votare no a questa controriforma.
Non si tratta, quindi, di semplice libertà di coscienza o di un ripensamento in limine mortis ma della concreta applicazione dei principi costituzionali e dei valori liberal democratici e socialisti del partito maggioritario della Sinistra italiana.

In tal senso, e innanzi a tali pericoli, gli elettori, gli iscritti, i militanti del Partito Democratico possono ritenersi anche formalmente affrancati da un accordo leso da altri e sicuri nell’affermazione - diretta e libera, attraverso il voto – dei valori propri di una Comunità che, di certo, non ha nulla a che spartire con un’operazione antiparlamentare, antipolitica, nemica dello stato di diritto e degli assetti istituzionali repubblicani.
Bene ha fatto in questo frangente la dirigenza del partito democratico, Zingaretti in testa, a rianimare il dibattito sul tema, a superare il torpore che sembra accompagnare questo delicato passaggio democratico, ad affermare la complessità della fase in atto, a denunciare il mancato rispetto degli accordi politici presi, a chiedere un passo avanti risolutivo.
Non si tratta affatto di rinnegare scelte politiche compiute – in primis la nascita del governo Conte 2 – ma, a me pare, si tratta ora, al contrario, di implementare le ragioni fondative dell’esecutivo - la risoluzione della crisi istituzionale ingenerata dal papeete salviniano e la necessità di dare vita ad un governo democratico ed europeista – per giungere ad una più chiara spinta progressista, anche in tema di riforma costituzionale.
Una spinta innovativa e integrativa che migliori e implementi il ruolo dei parlamentari e che fortifichi le ragioni della rappresentanza politica, respingendo facili riduzionismi ideologici e le scorciatoie autoritarie.

La “bandierina” propria del movimento di Grillo prima facie (ma anche della Lega “Orbaniana”) – il superamento dell’assetto istituzionale liberale - è non solo illegittima ma merita – oggi – la pronta reazione dell’elettorato riformista; di quello stesso elettorato che in gran parte, anche grazie alla previsione dei robusti correttivi su indicati, ha appoggiato la nascita “necessaria” del nuovo esecutivo non più sovranista ma che non ritiene di poter rinunciare ai propri valori di fronte all’incompiuto, alla mancata realizzazione di quanto previsto insieme.
La riforma costituzionale, come abbiamo già detto, è stata, quindi, sin dall'inizio dell’avventura del Conte 2, vincolata a precise variazioni tese a migliorare un testo in sé monco e anzi pericoloso.
La venuta meno del rispetto di quegli innesti necessari, per colpa di chi non importa, legittima, a mio parere, il partito democratico ad un disimpegno ufficiale per il sì e libera le forze degli iscritti e dei militanti nella battaglia politica per il no al referendum, al fine di salvaguardare un’integrità costituzionale lesa da un’operazione populistica e demagogica.

Salvini e Meloni, di contro, sono impegnati senza particolari contraddizioni interne per il sì al referendum.
Il ruolo degli alfieri di Orban in Italia non sorprende infatti, perché non sorprende in ultima analisi l’antiparlamentarismo di fondo tipico delle destre nostrane.
Il “cedimento” del partito democratico sui numeri della rappresentanza, invece, per quanto criticabile, è stato espressamente condizionato a correttivi di vera sostanza che potrebbero davvero salvaguardare – se approvati - l’impianto parlamentare della nostra Repubblica, consentendo allo stesso modo al governo di continuare ad operare nel pluralismo delle prospettive diverse.
La violazione degli obblighi assunti implica oggi, quindi, una nuova stagione dell’impegno referendario del Centrosinistra: ciò significa che - non sulla base di una semplice ed informale libertà di coscienza dei singoli anonimi ma in piena applicazione della storia, delle idealità, dello statuto e delle votazioni in materia istituzionale promosse dal PD - i militanti che si mobilitano per il no al referendum strutturano radicalmente (alla radice e senza pericolosi radicalismi) la volontà politica profonda e sincera del Partito Democratico.
In questo frangente ci si gioca, infatti, il ruolo storico di unico forte argine alla deriva antiparlamentare e plebiscitaria delle destre italiane e europee.