Dagli al liberismo? Meglio ripensarlo
Istituzioni ed economia
L’economista Stefano Zamagni, presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali, in un’intervista resa all’Osservatore Romano il 9 aprile u.s. ci fornisce una buona sintesi della “economia civile”, d’un approccio economico e sociologico davvero interessante – generato all’interno del variegato e proficuo mondo cattolico – che va ad arricchire, a mio parere, le c.d. posizioni terze: quelle riflessioni e quelle prassi che mirano a sciogliere le contraddizioni del capitalismo senza negare valore all’’economia di mercato.
L’operazione, in vero, non è nuova, e ci sono fecondi precedenti che analizzeremo a breve, ma è senz’altro significativo come questa prospettiva possa essere declinata con profitto proprio alle soglie del Mondo che sarà dopo la crisi sociale generata dalla pandemia da Corona-Virus.
È importante, infatti, cercare e tentare vie d’uscita possibili per una necessaria ripartenza che sappia cogliere pragmaticamente un nuovo inizio, interpretato come indispensabile se davvero si vuole che ex malo bonum.
Tante sono le suggestioni di Zamagni: il superamento di un approccio squisitamente centralistico e burocratico delle dinamiche economiche; la promozione della sussidiarietà orizzontale come produzione spontanea e libera di Diritto e di una crescita economica non riduzionista aperta al quadro ideale dello sviluppo integrale della Persona; l’analisi degli errori ideologici del passato che hanno condotto allo status quo ante virus.
Ed ecco, su questo ultimo punto vorrei tentare questa mia analisi critica: sulla compiuta problematizzazione dei meriti e degli errori (concettuali e storici) della fase sociale, economica e politica… di quella liberal-democrazia che siamo stati fino l’altro ieri, i cui fondamenti (anche quelli Comunitari/Europei) sembrerebbero definitivamente scossi dall’emergenza in corso.
Il nemico numero uno per Zamagni è il neo liberismo! Questo l’assunto dell’intervento stampa su indicato. Per Zamagni, il liberismo oggetto di polemica è solo quello di Adam Smith, quello della Mano Invisibile che, indifferente agli sconfitti delle crisi economiche, tende sempre a un equilibrio disincarnato e di matrice evoluzionistica: un equilibrio che distrugge per ricreare senza pietà, lasciando dietro di sé i rottami del processo: i deboli, gli esclusi, i fragili.
Ma è ancora davvero così? Questo è stato il nostro Mondo – la realtà italiana – fino a ieri? I nostri deboli, il nostro Meridione, hanno davvero patito per lo scatenarsi degli istinti della competizione capitalistica? Il problema, ad esempio, sono stati i licenziamenti ad nutum motivati da una meritocrazia esasperata, pronta a sacrificare chi appare sorpassato o, invece, il vero problema, oggi come ieri, rimane la mancanza di posti di lavoro, di imprenditori veri e di crescita? Il deficit di una sana economia in competizione, soffocata dalla gestione di un Potere politico sovra dimensionato e rispondente a logiche interne, faziose, sganciate dal bene comune?
Ed ancora, il pensiero liberale, al di là delle semplificazioni ideologiche e di un pregiudizio clericale passatista, è davvero ancora quello ottocentesco della Mano Invisibile, del laissez faire laissez passer?
Zamagni nelle sue articolate risposte nel corso dell’intervista, sembra in molti passi invero contraddire – e per fortuna - il suo stesso assioma, e ciò perché giustamente individua altri e forse più pericolosi “nemici” dello sviluppo italiano: la burocrazia improduttiva, innanzitutto, quella Casta irresponsabile che rigenera se stessa ad ogni crisi, ad ogni cambio di potere; e Zamagni comprende bene, inoltre, come le posizioni di rendita economica siano un altro cancro del Paese.
Quella rendita che è ostacolo alla mobilitazione delle risorse e degli ingegni e che, nell’ingiustizia ereditata, impedisce la mobilità sociale.
Il tutto aggravato dal fatto che, iniquamente, chi produce valore viene maggiormente vessato in tasse, mentre la classe che detiene patrimoni infecondi trova sempre pronti quegli alfieri della Conservazione che si impegnano per opporsi a qualsiasi operazione – questa sì davvero liberare – tesa a tassare nella misura giusta, per il bene di tutti, successioni e donazioni, le regalie prive di lavoro e sacrificio che imballano il moto sociale.
Zamagni, però, a mio parere, non coglie fino in fondo gli esiti del ragionamento antiburocratico ed invece di spingere – insieme a tutti i sinceri liberali – sul pedale della meritocrazia e della competizione proficua che genera liberazione nell’affrancazione delle risorse e nell’applicazione del principio – davvero redistributivo – della libertà eguale e della parificazione dei punti di partenza, torna con forza a delineare come nemico il liberismo economico e, quindi, quella globalizzazione dei mercati che, di certo, con la burocrazia del Leviatano c’entra davvero poco, facendo così il gioco - senz’altro senza volerlo - di un rinnovato statalismo ideologico.
Uno statalismo ideologico (anche nell’attuale declinazione sovranista/populista) che ha come obiettivo polemico il liberalismo e il liberismo e la cui affermazione d’agenda politica nella c.d. fase due dell’emergenza potrebbe riprodurre – senza anticorpi liberali, dunque - quegli errori disastrosi che, soprattutto a partire dagli anni ‘80 del Secolo Breve e fino all’inizio della stagione della UE, hanno condotto - nell’affermazione del primato della partitocrazia sulla Società - non tanto a crescita e benessere duraturo ma alla rendita, appunto, e alla burocratizzazione interessata dei flussi redistributivi che paghiamo ancora oggi, nelle forme dei potentati locali presenti al Sud, di un regionalismo spendaccione e inefficiente (anche al Nord) e, in fine, con la farraginosità delle risposte finora offerte per affrontare l’emergenza Coronavirus, espressione di un deficit di fiducia che (s)lega lo Stato ai suoi cittadini.
Zamagni, ancora, sembra poi unire, nella critica, tanto il liberismo di Adam Smith quanto l’austerity europea; aggiungendo paradosso a paradosso. Cosa c’entra, infatti, il presunto “tana libera tutti” dell’egoismo individuale, di una antropologia utilitaristica nemica di qualsiasi tipo di interventismo pubblico, con l’attenzione europea ai conti e al debito sovrano dei suoi membri, con il principio giuridico del pareggio dei bilanci statali, con il Mercato Comune iper tutelato e protetto?
Se, come pure è legittimo, si critica il principio “costituzionale” delle necessarie coperture finanziarie a fronte della nuova spesa pubblica, se si mira, con buon diritto, a ribaltare un’impostazione normativa che pretende di fare i conti con la rimodulazione nazionale della spesa storica – per conformarla al presente – prima di continuare ad indebitarsi sui mercati finanziari, è giusto pure comprendere che non ci si troverà accanto, come alleati in questa battaglia, i fautori liberali del principio di sussidiarietà e dello spontaneismo sociale; questi ultimi, infatti, hanno tutto da guadagnarci, in termini di sicurezza e operatività della libera intraprendenza, dalla tutela di conti pubblici e dalla salubrità dello Stato/Apparato.
Chi pure in buona fede si sta impegnando nel recitare il de profundis a “questa Europa”, non si ritroverà accanto, quindi, i cultori della società civile pronta a far da sé nel contesto di una matura Welfare Society che miri – nella libertà e nella responsabilità delle Istituzioni – a superare l’impostazione strettamente hobbesiana e, quindi, sovrana, di uno Stato burocratico e accentratore ma, invece, si accompagnerà all’allegra comitiva delle più varie “cicale”, impegnate in quello “sbilanciamoci”, in quello “stampiam moneta” che vorrebbe il settore pubblico sempre più coinvolto nell’ingigantire il Leviatano, il Dio mortale, la Piccola Patria, per incrementare le rendite degli apparati di potere pronti a gestire in maniera clientelare il flusso di denaro e di prebende da distribuire.
Il tutto, ovviamente, a prescindere dalla salubrità dell’economia reale, dimenticando la regola aurea del far di tutto per incrementarla la “torta” del benessere, senza limitarsi a moltiplicare le fette di un impasto privo di lievito.
Ritornando al liberismo e alla maschera ridotta che ce ne offre Zamagni, appare opportuno, invece, ribadire che – proprio a partire da quelle terze vie pragmatiche, concrete e non ideologiche chiamate nelle crisi a svelare limiti di ogni ideologismo - il pensiero liberale nella sua storia Novecentesca, di certo sollecitato dalla dialettica con le forze più innovative del Socialismo democratico e riformista, ha saputo per almeno due volte affrontare le contraddizioni dell’approccio originario del “lassaiz faire”, per giungere ad un liberismo innovativo e davvero progressivo.
Fu William Beveridge, nel contesto del “nuovo liberalismo” inglese, chiamato a dare risposte all’urgenza sociale prodotta dal Secondo conflitto mondiale, a presentare – nel 1942 – quel celebre rapporto che diede il via alla strutturazione seguente (anche grazie all’apporto dei laburisti) del Welfare State, dello Stato Sociale che, ancora oggi, rappresenta la sintesi augurabile di libertà e sicurezza, attraverso la generalizzazione della National Insurance e della creazione e implementazione del National Health Service.
E solo qualche anno prima, con riflessi e influssi che si sarebbero per fortuna poi ripercossi sulla stagione feconda del miracolo tedesco e italiano post bellico, furono gli Ordoliberisti della Scuola di Friburgo, economisti cristiani come Wilhelm Röpke e Walter Eucken, a innovare il metodo liberale, a salvare e tutelare la Società Aperta contro i nemici di destra e di sinistra (contro conservatori e rivoluzionari alle prese con le proprie teorie salvifiche e/o palingenetiche), ad evitare di buttare via il “bambino della modernità” con “l’acqua sporca” delle sue evidenti scorie, realizzando – proficuamente – un approccio giuridico, fondato sull’Ordo appunto, che scacciò nel passato l’illusione dell’equilibrio automatico del Mercato e ogni illusione anarcoide di matrice utilitaristica, affermando la necessità di coniugare lo “Stato forte con l’Economia sana”, l’intervento normativo di garanzia e tutela con la libertà del moto sociale.
Entrambe le Scuole – nuovo liberalismo e ordoliberismo - sono state come è noto efficaci, vantaggiose e produttive e, con orgoglio, il mondo liberale e quello cristiano democratico possono ben dire, attraverso il welfare state e l’economia sociale di mercato, di avere strutturato – anche grazie allo sviluppo del progetto di Europa Unita – il benessere continentale.
Tutto questo per dire, in conclusione, che ben vengano gli approcci complessi tesi a sviscerare, nella proposta fattiva, i limiti del sistema economico-sociale che con tutti i suoi limiti e le mille contraddizioni è giunto alle soglie della crisi epocale prodotta dal virus pandemico, e ben venga la critica al neo-liberismo della finanziarizzazione astratta e delle grandi concentrazioni economiche di pianificazione privatistica (che nulla ha a che fare, per altro, con le riflessioni fallibiliste e fondate sulle conoscenze diffuse e disperse del massimo esponente della “scuola austriaca”, Friedrich von Hayek), ma occorre pure impegnarsi per problematizzare fino in fondo i concetti espressi, non tagliando i ponti ma riscoprendo le innumerevoli strade ancora non compiutamente percorse, frutto della tradizione fecondissima del liberalismo democratico europeo.
Una Tradizione che ha saputo far guadagnare spazi all’economia e alla Società dei liberi, sottraendoli alle necessità fameliche dei partiti estremistici e eversivi, pronti a piegare lo Stato e le istituzioni alle esigenze faziose di questa o quella minoranza.
Il liberismo, almeno in Europa, è stato anche questo, ed è giusto ricordarlo con rispetto.