Facciamo uno di quegli scenari che tanto piacciono agli “analisti” politici.

Come è abbastanza evidente, Zingaretti ha poco interesse a prorogare una legislatura segnata, in ogni caso, dal fallimento del governo gialloverde e dalla dominanza renziana sui gruppi parlamentari del PD. Un governo con il M5S lascerebbe a Renzi il potere di vita e di morte sulla legislatura e – se davvero partisse un governo con dentro il PD – anche sulla sua leadership.

Dopo il passo falso della crisi-lampo Salvini ha come prima scelta il rapido ritorno al voto e dunque prova a ingombrare l’ipotesi di accordo giallorosso con generose offerte di ritorno a casa nella vecchia compagine, condizionate ovviamente dall’adesione alla sua idea di un “governo dei Sì”. Berrebbe forse l’amaro calice di un ritorno a Palazzo Chigi, da vice di Conte o di un altro figurante alfabetizzato della Casaleggio srl, ma solo per impedire la nascita di un governo “anti-Salvini”.

Di Maio dei tre protagonisti di questa fase è quello più in difficoltà. Se ritorna al voto, perde la leadership (e forse anche il seggio). Il precipitare anticipato verso le urne porterebbe presumibilmente il M5S a scegliere una leadership diversa e anti-governista (Di Battista) e in ogni caso a non presentare la propria offerta con il volto del tribuno che ha portato il M5S dal 32 al 17%.

Dei tre tenorini di questa desolante cantata agostana quello peggio messo è senza dubbio Di Maio. Ma il M5S non è di Maio e nulla esclude che Grillo, Casaleggio e i manovratori della ditta a 5 stelle possano scegliere, se Zingaretti alzasse troppo il prezzo, di accettare la sfida delle urne. Come Di Maio tra i leader, anche il M5S sarebbe il partito messo peggio in questa sfida, ma per Grillo (e la sua ditta) fare da junior party a un governo targato PD, privo di un vero connotato “giallo” sarebbe contraddittorio perché il M5S alle prossime elezioni ci sarà, eccome se ci sarà, e dovrà tenere alte le penne del “Cambiamento”.

Dunque, in base a questo scenario, si farà un governo giallorosso se Di Maio penserà di potersi fidare di Zingaretti e se Zingaretti penserà di potersi fidare di Renzi (o di essere costretto a farlo dalle pressioni interne e esterne dei grandi vecchi democratici, a partire da Prodi). Si rifarà un governo gialloverde se Di Maio penserà più conveniente tornare con Salvini e se Salvini, a quel punto, rotto il rapporto M5S-PD, non lo rimollerà al suo destino. Se tutto questo non succederà, ci saranno le elezioni.

Ciò detto, queste alternative, queste complicate geometrie, questi labirinti tattici raccontano qualcosa di significativo di quel che sta avvenendo e delle prospettive di uscita dal fallimento del governo gialloverde? No, non dicono nulla. La sostanza è un’altra ed è obiettivamente drammatica.

Anche l’eventuale ribaltamento del governo grillo-leghista segnerebbe un consolidamento del paradigma antipolitico, non una alternativa di copione e di visione al teatro dell’assurdo populista. Il fatto stesso che il nodo delle trattative continui a essere il sacrificio votivo di 345 parlamentari – considerato necessario per ingraziarsi i favori del Popolo, idolo eterno della “populocrazia” anti-democratica – dimostra che non è possibile allo stesso tempo fare un governo con e contro il M5S, con e contro l’idea che la crisi della democrazia italiana non vada rimediata ma definitivamente compiuta, per partorire così un’Italia nuova e liberata dal suo putrefatto cadavere.

Il M5S ha risolto l’estremismo ideologico in un oltranzismo ideologicamente indeterminato e politicamente dissociato tra l’ebbrezza del disfare e l’impotenza del fare, tra la denuncia paranoica del “sistema” e la rinuncia opportunistica a uscire dalla logica del “pensiero contro”. La futurologia di Casaleggio (padre) è il vestitino new age di un fanatismo reazionario che rifiuta, per concetto, l’idea della mediazione democratica e del pluralismo politico e riduce tutte le differenze e opposizioni a deviazioni dalla volontà generale, dal rapporto mistico tra Popolo e Potere. Una nevrosi psicologica di massa, prima indotta e poi trasformata in pensiero totalitario. È questo il M5S con cui il PD dovrebbe allearsi, non un altro. È questo il M5S che deciderà se generare o abortire il secondo governo populista della legislatura. Non le centinaia di parlamentari grillini che, come sono stati fatti, possono essere disfatti dalla macchina di Rousseau.

Però chi oggi nell’opposizione non populista, quindi essenzialmente nel PD, difende il senso di questo tentativo e la necessità di questo esperimento pensa che si possa se non guarire, almeno curare l’Italia avvelenata con dosi omeopatiche di veleno populista. Cioè, nella sostanza, che ci si debba adattare alla patologia come nuova fisiologia politica nazionale, e conformarsi alla nuova paradossale e mostruosa “normalità” del corpo politico dell'Italia.

Questo avviene anche perché molto di quel veleno è stato prodotto nei laboratori della stessa sinistra nei suoi travagli post-comunisti, prima di essere sparsa per ogni dove dai continuatori del sogno di un altro “ordine delle cose”. Ma se questa relazione pericolosa con il M5S appare oggi necessaria e desiderabile in casa PD è anche per una sostanziale sfiducia e una sempre malcelata antipatia per i feticci della polemica grillina – l’Europa, l’austerità, il mercato la finanza, la globalizzazione... – e per il calcolo (sbagliato) che solo inseguendo il M5S su quel campo sia possibile arginare e invertire l’emorragia di voti verso destra.

Allora, è evidente che un progetto populista in soluzione omeopatica finisce per apparire più ragionevole e strategico della costruzione di una alternativa. Questa capitolazione, questa negoziata auto-consegna del PD al M5S è una strategia efficiente contro Salvini, che nel frattempo potrà dispiegare un populismo ancora più sbrigliato e originale, senza neppure il peso del governo? Ci sono molte ragioni per dubitarne, le stesse che portano in medicina a dubitare dell'omeopatia.

carmelopalma