tienanmen grande

Capita ad alcuni di vivere sotto gli occhi eventi che restano nella Storia e che formano uno spartiacque. C'è un prima e c'è un dopo. Chiunque abbia un ricordo del 1989 sa che ha vissuto un anno irripetibile. Gorbachev, le rivoluzioni nei paesi dell'Est, la caduta del Muro di Berlino. Ma anche il 4 giugno, quello che in Italia chiamiamo Tiananmen, ma in Cina è descritto semplicemente come “4 giugno”. Ero uno studente del secondo anno d'università, convinto di diventare un diplomatico di carriera, e il 4 giugno 1989 cambiò la mia vita. 

La diretta degli eventi da Pechino, per chi non lo ricorda, durò un paio di mesi su una RAI che allora era un po' più attenta a queste cose. La morte di Hu Yaobang, la visita di Gorbachev a Pechino, il capo del Partito che cerca il dialogo e viene rimosso. Ed io, che della Cina non sapevo niente a parte aver visto cinque volte l'Ultimo Imperatore, rimasi incollato al televisore per tutto quel tempo, fallendo un paio di esami nel frattempo. Troppa era la distrazione, troppa la tensione. Perché succedeva questo? Come sarebbe andata a finire? Come andò a finire è noto purtroppo a tutti, ma fu proprio quella fine che mi spinse alla decisione che ha cambiato la mia vita: andare a conoscere la Cina e cercare di capire perché.

La curiosità era troppa. Il senso di smarrimento anche. Non facevo particolare militanza politica allora, ero idealisticamente progressista e ambientalista, come molti ventenni, ma non facevo certo parte di quel gruppo di sinologi o aspiranti tali vicini all'estrema sinistra italiana, convinti che quanto era avvenuto fosse un tentativo americano di sovvertire il regime cinese e che quindi era come al solito “colpa degli yankees”. Io no, ero indignato, avevo pianto la sera del 4 giugno e volevo capire. Trascorsi tre mesi nell'estate del 1990 nella Beijing Normal University, una delle università che era stata coinvolta meno nella rivolta e per questo era più aperta. Bei Da, il centro della rivolta non era lontana, ma era di fatto isolata.

Gli studenti stranieri nel mio campus erano tenuti ben separati dagli studenti cinesi, visitarsi reciprocamente era possibile solo attraverso procedure difficili. Un giorno rientrando in bicicletta al mio dormitorio fui tenuto fuori dal recinto universitario per ore perché Li Peng, il primo ministro, stava parlando agli studenti. Ma il terreno nel campus straniero era fertilissimo: c'erano giovani russi freschi delle riforme di Gorbachev che dicevano "meglio morire di fame che in un campo di concentramento!" (com'è cambiata, la Russia…), studenti africani di fisica o ingegneria che avevano vissuto in prima persona gli eventi ma non dicevano nulla, per timore di essere rimandati a casa, qualche matto inglese più a sinistra di Corbyn, e poi un bel gruppetto di italiani, giapponesi americani semplicemente innamorati del paese, della cultura, della Città Proibita, della Grande Muraglia, dell'ospitalità, della lingua che diventa una sfida imparare e per questo ti appassiona.

Insieme a loro cominciai a viaggiare per il paese in lungo e in largo, coi treni soprattutto, "bigiando" giorni di lezione. Quando potevo con il mio cinese rudimentale parlavo a chiunque volesse darmi confidenza: che cosa pensate? Cosa sapete dell'Occidente? In pochi, pochissimi rispondevano ovviamente, se non con frasi generiche di condanna o di supporto a seconda dei casi.

Shanghai, città sempre orientata ai commerci e che bada al soldo, sembrava aver già dimenticato tutto appena 12 mesi dopo: il governo negli anni successivi investì miliardi per trasformarla. Pechino e Nanchino no, assolutamente non avevano dimenticato. Ma a Xiamen, nel sud della Cina per esempio, non era successo quasi niente. Un paese di 9 milioni di chilometri quadrati, con allora un miliardo e 200 milioni di persone, non poteva aver vissuto un episodio concentrato sulle grandi città con la stessa intensità. Per sapere e capire, come mi accorsi presto, bisognava andare fino ad Hong Kong, dove venivi sommerso da quintali di libri e di riviste sul tema.

Durante quel viaggio, e poi quello dell'anno dopo quando mi trattenni sei mesi per scrivere la tesi in diritto comparato, continuai le mie escursioni da nord a sud, una in particolare fino a Fuzhou, di fronte a Taiwan, dove incontrai un amico giornalista cinese che cominciò a raccontarmi le cose dal di dentro. Il paese era ancora molto povero, certo meno di 10 anni prima, ma la povertà si toccava ancora con mano quando il treno si fermava alle stazioni intermedie e guardavi fuori, quando venivi inseguito da decine di mendicanti, quando il tuo commensale ti offriva di cambiare una banconota di 100 dollari a due volte il cambio ufficiale (adesso i dollari non li vuole nessuno), quando ti trovavi un topo sotto il tavolo del ristorante. In quegli anni, Deng Xiaoping fece il famoso viaggio al Sud in cui disse "arricchirsi è glorioso" e quindi espresse in maniera chiara il compromesso: voi, popolo, lasciate a noi, partito, la gestione assoluta del potere politico, in cambio vi daremo le libertà economiche necessarie per accrescere il vostro benessere.

Da quel momento in poi, del 4 giugno e di riformare il sistema politico cinese non si parlò più. Chi era morto a Pechino, tristemente, non era quasi mai esistito. Per più di 16 anni non si parlò di riforme politiche vere e degli eventi di Tiananmen, tranne tra i circoli degli stranieri - soprattutto americani, inglesi e francesi - e ad Hong Kong dove ad ogni anniversario si teneva e si tiene una veglia per i morti, che non furono solo studenti. 

Nel 2001 Andrew J. Nathan, uno dei maggiori sinologi americani, pubblicò il volume The Tiananmen Papers, che è lo studio definitivo, basato su una grande Wikileaks cinese, su quanto era successo, perché e chi ne fosse responsabile. Un libro che consiglio a tutti, ma non è una lettura da ombrellone. Nel 2008 Liu Xiaobo, poi premio Nobel per la pace, riprese il discorso, dando voce ad una nuova generazione di accademici che però non riesce a farla sentire oltre le mura delle università di spicco. Durante il ventesimo anniversario, 10 anni fa, l'account social di un mio collega fu bloccato per due settimane per aver fatto riferimento indiretto ai due numeri 6 (giugno) e 4. Il confronto pubblico sui fatti quindi è in pratica inesistente. Chi è nato negli anni 90 ne sa poco o niente e a volte non sembra nemmeno volersene interessare.

Niente potrà mai giustificare quanto accaduto, ma nessuna repressione sarebbe riuscita a tenere "calmo" un paese così vasto se quelli che avrebbero poi formato la classe media di oggi non avessero accettato implicitamente il patto di Deng: sicurezza, lavoro, sviluppo economico, opportunità per i nostri figli in cambio del potere al Partito.

E quindi una domanda ha cominciato a frullarmi in testa fin dal viaggio di Deng, che creò le basi legali dell'economia privata e galvanizzò tutti, dal contadino del Sichuan che riuscì a convertire la sua terra in denaro e aprire un negozietto, agli operai che formarono una cooperativa per comprarsi per quattro soldi l'azienda di Stato dove lavoravano, che poi magari è diventata Fosun. Una domanda che successivi viaggi a Singapore e India non fecero che rendere più impellente: è possibile avere sviluppo economico e opportunità di lavoro per tutti in assenza di una democrazia liberale, con la separazione dei poteri, lo stato di diritto, le libertà politiche e civili…? La risposta che ha dato la Cina finora è stata sì. Ed in effetti anche altri paesi (il Vietnam per esempio, ma anche Singapore e la Thailandia che è una democrazia a metà) hanno dimostrato che è possibile.

Ma non basta. E non penso durerà. Ventisette anni dopo il viaggio di Deng, ho visto, letto e mi sono confrontato abbastanza per arrivare ad una conclusione: che la democrazia liberale può non essere condizione necessaria per lo sviluppo economico, ma è condizione indispensabile perché il benessere e lo sviluppo economico siano duraturi. E anche perché la sicurezza e l'ordine pubblico non diventino alla fine repressione indiscriminata.  Se la Cina prenderà o meno la strada di un sistema politico diverso e se questo avrà le forme di una democrazia plebiscitaria come in Russia o di una liberale come Taiwan starà ai cittadini cinesi e soprattutto alla classe media, di nuovo, deciderlo.

Nel frattempo però è compito nostro, in Occidente, continuare a essere di esempio a chi - da quelle ma anche ahimè dalle nostre parti (chi ha detto "i giudici non hanno preso voti"?) - non crede nella democrazia liberale, nello stato di diritto e nella separazione dei poteri. Forza!

@MarcoMarazziMI

Marco Marazzi, è tra l'altro autore di "Intervista sulla Cina. Come convivere con la nuova superpotenza mondiale", Gangemi Editori 2018.