Secondo l’Economist  il 2019 sarà “l’anno dei vegani”. Cresce anno dopo anno il numero di persone che rinuncia alla carne e ai derivati animali, o magari soltanto alla prima, così come aumentano i cosiddetti “riduzionisti”, onnivori selettivi, ecc. Numeri da capogiro: negli ultimi dieci anni le persone che si identificano come vegane sono cresciute del 350% nel Regno Unito, del 400% in Portogallo, e del 600% negli Stati Uniti tra il 2014 e il 2017. Se l’essere vegani non è altro che un’etica del consumo, non avremo cartina di tornasole migliore che il modo in cui reagisce il mercato, cioè le imprese che a loro rischio e pericolo cercano di indovinare come si muoveranno le scelte delle persone.

Lo scorso autunno Beyond Advisors, società di investimenti del New Jersey, ha lanciato un exchange-traded fund con l’intenzione di dar voce alle “preoccupazioni di vegani, amanti degli animali e ambientalisti, evitando investimenti in compagnie le cui attività contribuiscono direttamente alla sofferenza animale, alla distruzione dell’ambiente naturale e al cambiamento climatico”. Sono espressamente escluse dalla lista imprese la cui attività è considerata nociva per il benessere degli animali. Il capitalismo è, per molti, come la natura di Alfred Tennyson: “rosso nelle zanne e negli artigli” (red in tooth and claw).

È l’immagine del mercato come teatro di scontro in cui il più forte depreda il più debole e l’etica è sacrificata sull’altare del profitto. Curioso che un sistema così privo di scrupoli abbia ora tanto a cuore il cibo cruelty-free. Ma lo stupore decresce, se siamo disposti a rivedere la nostra posizione sull’etica del capitalismo. Il mercato non è che un insieme di decisioni decentrate prese da imprese e consumatori, collegate unicamente dalla possibilità di scambiare. C’è una moralità in tutto ciò? Un sistema in cui l’imprenditore propone quello che crede che il consumatore vorrà, non conosce etica che prescinda dalle scelte concrete degli individui, incluse le scelte morali, nella misura in cui queste si riflettono sui consumi. Il capitalismo non è più (o meno) etico delle persone che ne fanno parte.

E così, il sistema che ha creato gli allevamenti intensivi li sta ora mettendo in discussione, guidato dalle pressioni del pubblico (fatte col portafogli, ma non solo) per un trattamento più umano degli animali e una maggiore attenzione all’impatto ambientale della produzione. Ecco spiegato l’aumento dell’offerta di prodotti cruelty-free, anche da parte di brand come McDonald’s o Burger King che hanno costruito una fortuna sul commercio di carne veloce e a basso costo.

Se non possiamo scorgere nel mercato un’etica in senso proprio, possiamo però attribuirgli un merito indiretto, cioè l’aver aumentato la ricchezza disponibile. Più un paese è ricco, più le persone escono dalla povertà per ingrossare le fila della classe media, più esse potranno concedersi il lusso di essere attente nei loro acquisti. Con il benessere, cresce la consapevolezza nel consumo. E le imprese reagiscono non solo modificando il catalogo dei prodotti offerti, ma anche riverniciando il brand e le proprie pratiche produttive per convincere il pubblico che si può essere attenti al benessere animale anche se si vendono hamburger e pollo fritto. Se ciò non sarà mai sufficiente a tranquillizzare gli animi degli attivisti, è segno che le pressioni del pubblico possono imprimere alle strategie aziendali un cambio di rotta.

Un sistema senza dubbio imperfetto. Le preferenze del pubblico e le scelte etiche individuali non potranno mai essere sintetizzate in un’offerta di beni che metta d’accordo tutti. L’idea che il mercato si muova secondo preferenze capricciose piace a pochi. L’alternativa, però, è che anziché essere delegate al mercato, siano gestite dalla politica. Cioè, di fatto, dai gruppi più in grado di catturare il favore di chi decide. E mentre il mercato può essere inclusivo e offrire qualcosa a tutti, come il nuovo Impossible Whopper di Burger King (un hamburger di carne vegana), la politica vive di divisioni e di etichette, come i “nazi-vegani”, apparentemente tra i responsabili dell’imminente crollo della civiltà occidentale.

Non sarebbe meglio che il regolatore imponga una tassa sulla produzione di carne, come proposto oltremanica dai Verdi? Sono distorsioni di tal genere, tuttavia, a ridurre la capacità del mercato di rispondere alle preferenze individuali. Una perdita sia per il pubblico sia per le imprese, insomma, che vedranno assottigliarsi il loro ricavi e saranno indotte anche in quel caso a rivedere i propri piani: meno investimenti in ricerca e sviluppo, più in lobbying per ingraziarsi il regolatore pubblico.