capitalismo grande

Sono secoli che si aspetta o profetizza la fine del capitalismo e si leggono singolari storie sul fallimento del sistema di libero scambio che ha trasformato, in meglio, la vita di miliardi di persone sul pianeta Terra. Con l’avvento dalla rivoluzione industriale la dimensione economica del mercato ha modificato radicalmente l’esistenza di uomini e donne. Il paradigma della crescita del reddito e delle aspettative di vita ha segnato la condizione umana. L’economia di mercato resta un esperimento di successo: rapporti di scambio aperti e spontanei hanno determinato un modo di produrre e consumare molto più libero dei precedenti, con effetti positivi sulla prosperità della società e degli individui. Ragioniamo del tema con Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni ed autore di Capitalismo (Il Mulino, 2023).

Cosa è cambiato da quando Marx ed Engels descrivevano il capitalismo come lo strumento di sfruttamento dell’uomo sull’uomo? L’accezione del vocabolo ‘capitalismo’ resta sempre negativa?

La parola è un problema: evoca, appunto, l’accumulazione di capitale, suggerendo che a contare in un’economia di mercato siano le risorse che abbiamo accumulato o che altri hanno (o non hanno) accumulato per noi. Questo si porta appresso due idee problematiche: la prima è che chi ha di più sia destinato ad avere ancora di più, la seconda che il capitalismo abbia a che fare con una certa “distribuzione” delle risorse, che sia proprio quest’ultima la cosa che conta. Invece a contare davvero è un’altra cosa: le economie sortite dalla Rivoluzione industriale hanno visto una straordinaria capacità d’innovazione. Non è che siamo diventati più intelligenti di quanto fossimo prima: gli antichi greci erano intelligenti quanto noi e svilupparono un pensiero complesso e fecero grandi scoperte. Ma quel pensiero e quelle scoperte non diventano manufatti, oggetti, a disposizione di un numero crescente di persone.

Per colpa del capitalismo diffuso e crescente, quelli che un tempo erano lussi esclusivi per élites oggi possono essere a disposizione delle persone qualunque. Viviamo di più, abitiamo case più comode, ci curiamo meglio, viaggiamo come mai nella storia e lavoriamo in relazione con tutti gli angoli del globo, moltiplicando opportunità di crescita e possibilità di affrancarsi dalla povertà. Come mai questa evidenza di cui siamo testimoni e beneficiari non muta la percezione del capitalismo nelle persone? O lo ha fatto e non ce ne siamo accorti?

I motivi sono tanti. Da una parte, noi non comprendiamo il funzionamento di un’economia di mercato, che si basa sulla cooperazione a lunga distanza fra estranei. Per come ci siamo evoluti, tendiamo a ragionare per nessi causali semplici e a credere che qualsiasi evento sia l’esito di una decisione consapevole. È la ragione per cui ci concentriamo tanto sulla distribuzione della ricchezza. Ci viene “naturale” credere che se qualcuno è ricco è perché lo ha deciso qualcun altro. In un senso molto ristretto ciò può essere vero: il salario dei dipendenti di una certa impresa è in una data misura determinato dai loro manager. Ma quell’impresa ha successo o meno, dunque può continuare a retribuire i suoi collaboratori oppure no, sulla base del verdetto dei consumatori e di una pluralità di fattori che non controlla. Alle imprese dobbiamo chiedere prodotti che ci servono, non che siano “giuste”, sulla base di una qualsiasi definizione di giustizia.

Questo però ci riesce difficile, non capiamo davvero come possa esistere un ordine autopoietico qual è l’economia di mercato. Dall’altra parte, noi tendiamo a darne per scontato i successi. Soprattutto oggi, quando noi utilizziamo continuamente strumenti che non abbiamo davvero idea di come funzionano o di come siano stati realizzati (al pari del laptop sul quale tu stai trascrivendo questa intervista), diamo per scontato che tutte queste magie esistano “di per sé”, un po’ come il mondo naturale che ci circonda, e che non dipendano da un determinato contesto che le ha rese possibili. È come se imprese e imprenditori fossero figure meramente parassitarie, che si sono impossessate di una “macchina della ricchezza” che funziona a prescindere, e anzi funzionerebbe meglio se la mettessimo sotto il controllo dello Stato. Magari fosse così semplice…

La tanto agognata possibilità di migliorare la propria condizione rispetto a una precedente idea di assoluta stasi e immodificabile ripetitività del mondo, è il nocciolo culturale e vincente del libero commercio: perché in primis per i figli di nessuno?

Perché sono coloro che più sentono il bisogno di migliorare la propria condizione. Diceva un importante studioso che se vuoi vedere un’attività economica febbrile devi andare in uno slum, dove chiunque cerca di arrabattare qualcosa da vendere per, appunto, mettere il pane in tavola.

Qui ovviamente entrano in gioco le istituzioni e il tempo e i luoghi in cui ci troviamo a vivere. Pochi film italiani raccontano meglio la capacità imprenditoriale, e anche la furbizia e la cialtroneria che ogni tanto l’accompagnano (come accompagnano qualsiasi altra attività), quanto Mixed by Erry di Sydney Sibilia. Se Enrico Frattasio e i suoi fratelli anziché a Forcella fossero nati a Palo Alto avrebbero messo in piedi una grande azienda capitalistica e di mercato: nel contesto in cui si sono trovati la loro energia imprenditoriale si è espressa come si è espressa.

In generale, il più grande fallimento dei sostenitori dell’economia di mercato è essersi fatti identificare con i “ricchi”. Se vogliamo usare questa categoria inevitabilmente scivolosa, sono pochi i ricchi cui piace l’economia di mercato: perlopiù si tratta di persone che avevano cominciato il loro percorso da poveri, o che sono figli di persone che sono diventate ricche da povere che erano e che si ricordano di come è andato questo processo. Le persone molto abbienti tendono, non c’è nulla di strano, a frequentare i potenti. Fra gli uni e gli altri, fra ricchi e potenti, esistono legami sociali, una frequentazione fatta di conversazioni brillanti e cene piacevoli, che spesso diventano un intrigo di favori che si scambiano, di mani che lavano altre mani, di consulenze affidate, di privilegi accordati. Il tutto, beninteso, in assoluta buona fede: si vive in cerchi ristretti e ognuno pensa di essere attorniato delle persone “giuste”, addirittura di quelle “giuste” per governare un Paese o dirigerne le produzioni.

L’economia di mercato si basa sull’idea che per fare qualcosa non si debba più chiedere permesso al sovrano, che è una cosa ben diversa da questi circuiti relazionali che pure sono inevitabili, in qualsiasi società. Ecco perché serve di più ai “figli di nessuno”: i figli e i nipoti di “qualcuno” hanno di solito strade più facili, da intraprendere.

Nel libro parli del capitalismo come di un processo libero di mercato simile ad un puzzle, di cui nessuna “super-mente” può ritenere di avere la chiave: il segreto risiede nell’estrema frammentazione delle conoscenze pratiche di tempo e di luogo, come scrisse von Hayek, che servono ai singoli operatori economici per determinare cosa, come e quanto produrre. È la nostra fortuna: come spiegarlo a chi non coglie questo concetto forse contro-intuitivo?

Ovviamente, direi regalandogli il mio libro… Più seriamente, il bello dell’economia di mercato è che non c’è bisogno di comprenderla per “usarla”: non bisogna conoscere il manuale d’istruzioni, noi usufruiamo quotidianamente della nostra libertà economica (la libertà di scegliere un bene o servizio, la libertà di farci scegliere come produttori di un certo bene o servizio) senza accorgerci che è quello che stiamo facendo, quando andiamo al supermercato o compriamo qualcosa su Amazon. Si può essere un imprenditore eccellente o un consumatore il più astuto senza aver mai speso un minuto nella vita a cercare di comprendere come funziona il mercato.

Un processo faticoso che richiede di prendere delle decisioni e risponderne responsabilmente attiene a un modo di allocare le risorse in regime di scarsità, ciò significa scegliere quali idee perseguire e quali lasciar perdere…

Noi non sappiamo quali risorse siano più “importanti” e dove debbano “venir messe” all’interno del settore produttivo. Non lo sanno i ministri dell’industria ma non lo sanno nemmeno i singoli imprenditori, che si muovono sulla base di congetture, più o meno articolate. Le cose che noi impariamo sull’uso migliore delle risorse a nostra disposizione le impariamo “assieme” e come economia di mercato, non perché qualcuno di noi sia più intelligente, capace o informato di altri. Le impariamo senza cercare necessariamente “quelle” lezioni e “quelle” risposte. E il peggiore degli errori concettuali è proprio quello di contrapporre l’intelligenza del singolo individuo a quella dell’ecosistema, per così dire. L’economia di mercato non è “razionale” o “giusta” per lo stesso motivo per cui non useremmo questi aggettivi per l’evoluzione. Si tratta di un gigantesco setaccio, attraverso i cui fori possono passare le cose più diverse. Il fatto che filtrano ci dice che sono “adatte” alle circostanze di un’economia di mercato, ma non ci dice nulla sulla loro natura. Tant’è che dai fori del setaccio passano sia i film porno che i rosari.

@antonluca_cuoco