Colonna monumento

Da un certo punto di vista la politica italiana sta tornando alla normalità, che non è quella del bipolarismo tra destra e sinistra, ma dell’antagonismo tra una "politica" e una “antipolitica” raccolte attorno all’alternativa tra i valori fondamentali della guerra civile occidentale: diritto contro sangue, stato contro nazione, cittadinanza contro appartenenza.

Il M5S è stata la parentesi originale e “italiana” congegnata da un cretino di talento (Grillo) e da un consulente strategico geniale (Casaleggio), capaci di coniugare l’estrema destra e l’estrema sinistra, il passatismo e la futurologia new age, il No-Tav e Gaia, il luddismo e la distopia digitale. Un virus contagioso, che dai bar delle periferie derelitte del meridione italiano passava ai polmoni culturali del ceto intellettuale e dirigente, convertito a questa rupture insieme provinciale e snobistica, cafona e impancata, dalla senatrice Taverna e dagli scappati di casa intellettuali e professionali dei Grillo Days ai professoroni dell’accademia e della cultura “antagonista” (i Settis, i Montanari, le De Monticelli, i Flores D'Arcais…), uniti in un corale e scatenato vaffanculo a tutto e a niente.

Alla fine però anche in Italia ha preso il sopravvento la forza di gravità permanente di categorie politiche che si potrebbero definire più tradizionali e che sono invece semplicemente più archetipiche: la razza e la geografia, contro l’onestà e il curriculum. Non è qualcosa di più reale, nella determinazione dei rapporti di forza e di debolezza economica e sociale. Basti vedere come anche la crescita zero e il fallimento clamoroso delle promesse populiste sul piano economico non smentisca affatto il populismo e i suoi interpreti, ma ne consolidi il ruolo salvifico, la funzione di contrasto contro il nemico. Il Pil scende e Salvini sale, pur essendo il padrone del Governo in carica.

Il populismo non è la variante "di destra" del “It’s the economy stupid” con cui Clinton liquidò la grandeur geostrategica di Bush senior, non è il ritorno ai fondamentali della vita e della libertà, del potere di fare e di disporre di sé con agio, se non con disagio. È una prestidigitazione psico-politica fondata su materiali più storici e meno ideologici, più visibili e percepiti, più antropologicamente fondamentali, più capaci di architettare un “noi” e “loro” convincente nel loro reciproco conflitto.

Casaleggio aveva declinato la centralità del “voto contro” spostando lo scontro su un piano paradossalmente più ideale: i buoni contro i cattivi, secondo la pubblicistica "tangentopolitara". Bannon e tutti i suoi profeti, compreso il teppistello che da lanciatore di uova a ministri e carabinieri oggi sfoggia divise buzzurre law and order e promette galera a destra e manca, hanno abbassato l’asticella e rinforzato il concetto. Guardate il colore della pelle, guardate la nazionalità. Dalla fedina penale al mappamondo, dal moralismo alla fisiognomica razziale. Una nuova e più agevole geografia del nemico.

Chi pensa che il collasso del voto grillino e la crescita di quello leghista corrisponda a una diversa percezione di preparazione e di competenza da parte dell’opinione pubblica, sta cadendo nell’ennesimo wishful thinking della stagione antipolitica. Gli italiani - in particolari quelli del Sud che stanno passando in massa da Giggino a Matteo – hanno semplicemente capito che la chiave “etnico-razziale” è più servibile di quella “ideologico-morale” e che le celesti praterie dell’antipolitica italiana coincidono con quelle dell’antipolitica occidentale, con l’angoscia e la solitudine dell’uomo bianco, con la paranoia dell’invasione e l’illusione della sovranità, come ultima foglia di fico della cattiva coscienza e estremo rifugio contro il sentimento vergognoso dell'impotenza.

@carmelopalma