Fanno più debito pubblico e ce lo fanno comprare. Con le buone?
Istituzioni ed economia
La parola “spread” sembra avere la capacità di trasformare in gelatina ("spread" vuol dire in effetti anche "crema da spalmare") le sinapsi cerebrali anche del più cauto padre di famiglia, che inizia a immaginarsi gli ircocervi cattivi della finanza internazionale che brigano per impedirci di essere ricchi, cosa che forse riteniamo un diritto naturale.
Gli psicologi del resto spiegano che accettare un depauperamento di prospettive fa più male che essere in condizioni peggiori ma con una tendenza al miglioramento. Resta però il fatto che, anche se non lo accettiamo psicologicamente, per essere ricchi in modo sostenibile bisogna saper fare qualcosa di rilevante meglio o in modo più efficiente degli altri. Non ci sono altre vie: prendere i soldi a prestito e spenderli per comprare cose che fanno altri funziona solo per un po’, finché qualcuno quei soldi te li dà.
Ma si può sempre provare a non essere proprio noi i primi che quei soldi smettono di riceverli. Così, nell’era delle sinapsi-gelatina (d’ora in poi, per semplicità: gelatina), nel mirino sono finiti i finanziatori del debito pubblico e le agenzie che ne valutano la solidità. Ma in un contesto in cui ormai i 2/3 del debito pubblico italiano sono in mano a prestatori nazionali e alla BCE il gioco delle parti diventa sempre più una scissione psicotica: la gelatina ci fa prendere di mira i creditori, che però siamo per la maggior parte noi stessi.
Ma alla gelatina non interessa: ci suggerisce che potrebbero esserci dei mezzi non coercitivi per convincere il noi-prestatore a continuare a prestare al noi-gelatinoso anche contro il suo interesse. Si potrebbe convincere con le buone il noi-prestatore a continuare a comprare titoli di Stato e tenerli a lungo. Ma come?
Il governo, e in particolare le menti economiche della Lega, stanno studiando i Certificati Individuali di Risparmio (CIR). Si tratta di prodotti finanziari, destinati ai residenti in Italia, che investono esclusivamente in nuove emissioni di debito dello Stato o delle altre amministrazioni pubbliche. Se ne incentiverebbe l’acquisto con benefici fiscali simili a quelli dei Piani Individuali di Risparmio (PIR), recentemente introdotti per finanziare le imprese più piccole: niente tasse sui rendimenti e possibilità di un credito di imposta, a condizione che le somme restino vincolate per un periodo, probabilmente abbastanza lungo, di tempo. Inoltre i CIR sarebbero impignorabili e non sottoponibili a sequestro. Nei piani del governo potrebbero partire già dall’anno prossimo. Interessante, vero?
Ci vengono però in mente alcune considerazioni, che condividiamo a mo’ di lista della spesa:
Dalle condizioni economiche dell’Italia dipendono già il nostro stipendio e la nostra pensione futura. Il buonsenso consiglierebbe di diversificare il rischio investendo anche all’estero. Buttarsi sul debito pubblico italiano sa molto più di “oro alla Patria” che di scelta razionale e prudente. L’idea (o furbata, dipende dal livello di gelatina) dietro ai CIR è quella di sottrarre dal controllo dei mercati il debito pubblico italiano, “ammazzando” lo spread. Sarebbe così garantita un po’ più di disinvoltura nella gestione delle finanze pubbliche.
In questo modo una quota sempre maggiore del debito pubblico passerebbe da gestori professionali in grado (almeno in teoria) di valutare il rischio delle finanze pubbliche italiane ai normali cittadini. Non è forse inutile ricordare che gli italiani sono tra i peggiori al mondo per quanto riguarda l’alfabetizzazione finanziaria. Pensandoci bene è un po’ come quello che hanno fatto in passato le banche, piazzando il loro debito ai clienti sotto forma di prodotti non facilissimi da comprendere e senza fornire tutte le informazioni necessarie. Per qualche risparmiatore, ricorderete, è finita malissimo. Se state pensando che il “CI” di CIR stia per “Circonvenzione d’Incapace” siete i soliti maliziosi.
Anche se i CIR coprissero tutte le nuove emissioni, lo spread si potrebbe eliminare soltanto facendo scomparire del tutto il mercato secondario dei titoli di stato. “Vaste programme”, direbbero in Francia. Il debito pubblico italiano già emesso (che ricordiamolo, è il terzo più grande al mondo) rimarrebbe comunque in circolazione sui mercati internazionali. Quindi, politiche di bilancio un po’ allegre non passerebbero comunque inosservate.
L’acquisto di debito pubblico da parte dei cittadini dello Stato che lo produce è più o meno una partita di giro. Ma non completamente: il noi-risparmiatore non è esattamente uguale al noi-cittadino. Comprerebbe i CIR solo chi ha abbastanza soldi per risparmiare (magari anche grazie alla “pace fiscale” per gli evasori), mentre il costo del maggiore debito lo pagheremmo tutti e specialmente i più poveri in caso di taglio dei servizi pubblici.
Il trattamento fiscale favorirebbe una volta di più chi campa di rendita rispetto a chi lavora. Inoltre chi, coi propri risparmi, vuole investire in attività produttive verrebbe penalizzato rispetto a chi sceglie i CIR (se, arrivati a questo punto, non avete ancora capito che vi sconsigliamo di farlo, abbiamo da proporvi un interessante investimento immobiliare in zona Fontana di Trevi). Le imprese sarebbero penalizzate due volte: le risorse per i CIR non finirebbero nei PIR e neanche nei depositi bancari, riducendo i prestiti che per molte imprese sono l’unica fonte di finanziamento.
Reimpacchettare il debito e dargli una patina di lucido non sembra quindi molto sensato. E non è un’alternativa all’unica soluzione possibile: ridurre il debito pubblico. In definitiva l’operazione dei CIR puzza un po’ di gioco delle tre carte o, se preferite, l’ennesima distrazione prodotta da questo governo. Complice la gelatina che è in noi.