Non tutti i deficit sono uguali, e quello del DEF è il peggiore di tutti
Istituzioni ed economia
Il DEF, documento di economia e finanza, ha segnato un punto di svolta. Un apice di demagogia difficilmente immaginabile, anche solo per come è stato festeggiato. Avrete letto altrove del perché gli interventi sono monchi, regressivi, pericolosi, persino ingiusti e forse anche incostituzionali. Focalizziamoci un attimo, qui, sugli effetti che l’aumento del deficit previsto per i prossimi tre anni avrà e sul perché si tratta di un salto nel vuoto.
Partiamo da un assunto e cioè che il limite del 3% ha un senso economico ben chiaro: permette di tenere costante il debito in presenza di una crescita nominale del 3% e una inflazione del 2%. Abbiamo crescita all’1% e inflazione all’1%. Per mantenere costante il debito servirebbe il pareggio di bilancio, più o meno. In aggiunta, la previsione dei trattati è per il mantenimento del debito intorno al 60%. Siamo oltre il 130%. Inutile aggiungere altro.
Qualcuno, giustamente, obietta che è necessario far crescere il paese e per farlo si potrebbero fare investimenti in deficit. Potenzialmente, questo potrebbe anche essere vero. Con la spesa improduttiva è difficile credere che non ci siano altre voci da tagliare, ma facciamo finta di crederlo. Quali potrebbero essere questi investimenti? Ad esempio, investimenti infrastrutturali. Oppure, tagli del cuneo fiscale per i lavoratori che aumentino l’occupazione. Sono, tipicamente, spese dalle quali ci si attende un ritorno (un eccesso di investimenti temporaneo) oppure che possano creare extra gettito a copertura in un determinato gap temporale. E dunque? E’ questo il caso? Assolutamente no!
In questa manovra c’è un aumento di spesa strutturale di quasi 1 punto di PIL. 15-20 miliardi che vanno principalmente nel reddito di cittadinanza (nella forma che avrà) e nella cosiddetta "quota 100". Nuove spese che non solo rimangono permanentemente nel bilancio dello stato ma che, ancor peggio, non riusciranno ad avere effetti consistenti sul PIL in grado di bilanciare questo costo. Disincentivano il lavoro, incentivano il lavoro nero, non creano posti per i giovani se non parzialmente e con effetti di breve termine (differentemente da quanto falsamente predicato da chi sostiene i prepensionamenti). Puniscono per l’ennesima volta la generazione under 40 il cui futuro è ormai definitivamente ipotecato.
Perché definitivamente? Perché c’è un altro aspetto importante. Le persone ancorano le loro aspettative a un cosiddetto reference point, ossia valutano vantaggi e svantaggi rispetto a un determinato punto di riferimento nell’assetto dei loro redditi/consumi/patrimoni. Sui temi fiscali e di welfare, tipicamente il reference point è lo status quo. E poiché l’avversione alla perdita di un determinato bonus è notevolmente più forte di quanto sia l’attitudine a beneficiare di un vantaggio ipotetico, diventerà politicamente impossibile ritirare questi provvedimenti nel prossimo futuro.
Questo fardello non potrà essere più alleggerito. E anche questo ha un effetto rilevante. Perché abbiamo un aumento di spesa di 15-20 miliardi. Perpetuo. E questo crea il problema: non è tanto il debito esplicito quanto il debito implicito a rendere instabili i mercati ossia gli impegni di spesa futuri che non potranno essere modificati. Le pensioni, in primis. Ma anche il welfare di base. Ecco perché quando si toccano i saldi pensionistici l’effetto è così rilevante.
A quanto ammonta questo debito? Probabilmente a qualche centinaio di miliardi. E gli interessi, a mano a mano che questo diventerà esplicito e si trasformerà in nuovi titoli di stato emesso, si aggiungeranno. Per non parlare dello spread che accumulerà ulteriori costi per la gestione del debito.
La cosa triste è che questo spazio di spese viene ipotecato a discapito di tagli al cuneo fiscale, investimenti, ecc. E poiché lo spazio fiscale non è infinito, sarà necessario arrampicarsi ancora di più sugli specchi quando si vorrà fare un ragionamento serio sull’assetto complessivo del nostro fisco. La necessità di una vera e propria dialettica generazionale intransigente è ora più che mai necessaria. L’ipoteca, questa volta, è di rilevanza notevole.