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Prima il sottosegretario Giorgetti - il Tarek Aziz del Governo gialloverde - ha annunciato l’attentatuni ai conti pubblici italiani. Colpiranno - dice la sua cupa profezia - tra fine agosto e metà settembre, quando il rating dei nostri titoli potrebbe subire un declassamento e infiammare la cosiddetta “speculazione” nell’imminenza della nuova legge di bilancio. Come avvenne, aggiunge Giorgetti, al Governo Berlusconi nel 2011.

Dopo poche ora il vicepremier Di Maio ha rasserenato gli animi e dispensato ottimismo: “Io non vedo il rischio concreto che questo Governo sia attaccato, è più una speranza delle opposizioni. E se qualcuno vuole usare i mercati contro il Governo, sappia che non siamo ricattabili. Non è l’estate del 2011 e a Palazzo Chigi non c’è Berlusconi, che rinunciò per le sue aziende.” Nella sostanza, dice Di Maio, Berlusconi fu costretto a cedere, perché aveva interessi imprenditoriali privati da mettere in salvo. Invece noi, che non abbiamo nulla da perdere, potremmo resistere al nostro posto senza arretrare di un passo, anche con la spread a 500.

A leggere a confronto le preoccupazioni del vecchio professionista leghista e l’ottimismo del giovane dilettante pentastellato sembrerebbe che la vera divisione nel Governo non sia tra gli emuli della “destra” ungherese e quelli della “sinistra” venezuelana, ma semplicemente quella tra i tattici e gli arditi, tra i cavouriani e i garibaldini della rivoluzione populista. Senza nessuno che però metta in discussione la necessità del redde rationem con l’Europa matrigna.

Si è discusso a lungo di quale fosse la vera agenda del Governo: se il piano A per costringere l’Ue, con la minaccia dell’omicidio-suicidio dell’Italia e della conflagrazione dell’Eurozona, a lasciare che il nostro Paese goda del privilegio di regole parallele e su misura; o se il piano B, con la ricerca e la provocazione di un incidente che porti alla nostra fuoriuscita dalla moneta comune - e dunque direttamente dall’Ue - come conseguenza delle nostre infrazioni. La cosa più probabile, invece, è che il negoziato con la Commissione non porti né a un accomodamento, né a una rottura, ma semplicemente al rinvio del redde rationem alle elezioni europee, dopo le quali, come dice dI Maio, “finirà l’epoca dell’austerity e inizierà un nuovo settennato di bilancio espansivo”.

Anche i dottor Stranamore dell’esecutivo, che peraltro sono tutti professionisti del consenso e del potere, non talebani votati al martirio, sanno perfettamente che sia il piano A che il piano B non sarebbero da loro gestibili. Le poche briciole, che la Commissione potrà concedere rispetto al deficit concordato, non consentirebbero di cantare vittoria. La guerra con Bruxelles e la fuga di risparmi e capitali dall’Italia non sarebbe arginabile invocando il Dio della Nazione, come fa in queste ore Erdogan, perché l’Italia non è ancora la Turchia e ci sono poche possibilità che lo diventi nelle prossime settimane. Lo spread a 500 e le code agli sportelli bancomat darebbero un senso di rischio esistenziale in un Paese con una ricchezza ancora ingente e diffusa e l’unica persuasiva opzione exit, per la generalità degli elettori, sarebbe quella dal governo giallo-verde.

Dunque il modo migliore per confermare la purezza del verbo populista e per non sfidare il responso delle istituzioni europee e dei mercati sarà quella di spostare la partita decisiva al prossimo maggio. “Non abbiamo potuto fare la flat tax, il reddito di cittadinanza, la rottamazione della Fornero e tutto quello che vi abbiamo promesso, perché a Bruxelles comandano ancora ‘loro’. Quando comanderemo ‘noi’, finalmente potremo procedere.” Inerzia e casino, fino alle elezioni europee. Ecco il piano C. Parole grosse, e politiche piccolissime o nulle, come il cosiddetto “decreto dignità”.

Si tratta dello scenario più probabile, ma anche più difficile da gestire per gli avversari del Governo gialloverde, che dovranno impegnarsi a spiegare che anche questo esito sarebbe assai poco propizio per l’Italia, perché il riassestamento dell’Ue su di un modello “sovranista” renderebbe ancora più complesso difendere gli interessi italiani, che sia dal punto di vista economico, sia da quello strategico hanno bisogno del rafforzamento, non della manomissione delle regole che oggi garantiscono la coesione europea, la stabilità monetaria e l’apertura del mercato interno.

@carmelopalma