Gli Imperi avanzano, ma l’Europa ha paura di se stessa
Marzo/Aprile 2015 / Editoriale
La Cina, la Russia e il Califfato sono o ambiscono ad essere imperi, cioè potenze a vocazione espansionistica ed egemone. Invece l'Europa, dopo gli orrori novecenteschi, ha costruito l'illusione di un mondo "buono", ormai addomesticato e innocuo. Eppure la storia bussa di nuovo alla porta di chi ne aveva decretato ottimisticamente la fine.
All'alba del dodicesimo secolo la Cina, governata dalla dinastia Song, segnava la vetta della civiltà umana. Una fiorente società urbana che lasciava presagire sviluppi politici del tutto simili a quelli sperimentati dall'Occidente secoli dopo (con tutto ciò che avrebbe comportato in termini di "democratizzazione" del sistema imperiale), un sistema di valori incentrato sull'universalismo e sulla primazia delle virtù civili su quelle militari, un patrimonio culturale unico al mondo, una politica estera razionale e pragmatica che legava la sicurezza dei confini agli scambi commerciali più che alle spese per la difesa, e che aveva garantito per un secolo circa rapporti stabili e pacifici con i regni "barbarici" che premevano ai confini settentrionali. Poi vennero i Jurchen, tribù mancesi che si fecero Stato, e che - mentre l'imperatore Huizong componeva raffinate poesie, collezionava giade e si dilettava di calligrafia - saccheggiarono la capitale Kaifeng, allora la città più popolosa del mondo, e piantarono il vessillo della loro dinastia, costringendo i Song a ritirarsi a Sud.
Fu poi la volta dell'orda dei Mongoli. Una macchina da guerra terribile e fenomenale capace di conquistare il vasto cuore dell'Eurasia nel giro di pochi decenni: un impero globale ante litteram, flessibile e potenzialmente senza confini. Sconvolsero gli assetti mondiali. Nella loro capitale meridionale, la splendida Hangzhou, gli abitanti di quel che restava dell'Impero Song ricevevano notizie dei massacri che gli uomini di Gengis Khan e dei suoi successori perpetravano nel "mondo di fuori". Ma legati al loro vecchio mondo, convinti di poter gestire i "barbari" o addirittura di manipolarli l'uno contro l'altro - e certi che nulla avrebbe potuto sradicare la loro civiltà superiore, assistettero quasi paralizzati all'arrivo dei mongoli nelle loro campagne, nelle loro città. Era il 1279 quando l'ultimo sovrano dei Song morì in mare, mentre tentava la fuga dalla capitale ormai perduta.
Oggi come allora, la storia bussa alla porta di chi ne aveva decretato ottimisticamente la fine. Dal 1989 in poi, dopo la caduta del Muro di Berlino e il collasso dell'Unione Sovietica, ci siamo ubriacati di "fine della storia", per dirla con le parole di Francis Fukuyama. Ci siamo illusi che fosse ormai sorta un'età dell'oro per le liberaldemocrazie capitalistiche, destinate ontologicamente a crescere senza sosta e a espandersi sul Pianeta. Ogni cosa, negli Anni Novanta, sembrava suggerire che il binomio democrazia e capitalismo avrebbe consentito all'umanità di prosperare in un mondo sempre più globalizzato, multilaterale e piatto. Si consentì ad esempio alla Cina di entrare nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, il WTO, senza curarsi degli squilibri che un tale gigante autoritario e illiberale avrebbe provocato agli assetti mondiali.
Poi l'11 Settembre, la grande crisi finanziaria e soprattutto l'atteggiamento aggressivo ed espansivo delle "nuove vecchie" potenze hanno spezzato l'illusione. L'Europa oggi è in pericolo, sebbene in troppi continuino a comporre poesie, collezionare giade e dilettarsi di calligrafia. Stiamo entrando in un'era dominata dall'emergere di nuovi Imperi. La Cina, la Russia e finanche il Califfato sono o ambiscono ad essere imperi, cioè potenze a vocazione espansionistica ed egemone. Non hanno nulla in comune tra loro, potrebbero molto presto confliggere, ma ognuna a modo suo rappresenta una minaccia credibile e duratura al modello di vita e di libertà delle libere democrazie occidentali e di centinaia di milioni di persone che, in giro per il pianeta, ambiscono a vivere secondo i valori "occidentali".
L'America è un impero con molta voglia di ritirarsi entro i suoi confini, nel suo enorme spazio continentale. L'Europa è un impero che rifiuta e ha paura di essere tale. Eppure lo è, per il numero dei suoi abitanti e per la qualità media del suo "capitale umano"; lo è per infrastrutture e per tessuto produttivo, per peso economico e per rilevanza strategica, distesa com'è tra l'Atlantico e il Mediterraneo, tra l'Africa e l'Asia centrale; lo è per la sua eredità storico-culturale e per il fascino capace di proiettare a livello globale. Tuttavia, gli europei hanno operato nel corso del secondo dopoguerra una rimozione collettiva tanto profonda da essere ormai parte integrante di quella che potremmo definire la nostra identità ("gli europei sono incapaci di pensare alla sicurezza perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra", ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera).
Traumatizzati dagli orrori novecenteschi, abbiamo tentato di sigillare i dèmoni risvegliati nel secolo breve, costruendo attorno a noi l'illusione di un mondo "buono", ormai addomesticato e innocuo. La crescita economica e la cultura del diritto, il benessere e il pacifismo, l'accoglienza e la solidarietà, l'appianamento delle differenze sociali e l'ossessiva ricerca del dialogo e del multilateralismo. Nobili intenzioni - certamente migliori della retorica "cattivista" e gratuitamente guerrafondaia che ciclicamente riappare nel dibattito politico - che, però, si fermano all'uscio di casa.
Fuori, la storia prosegue. Le guerre e i golpe, i massacri e il fanatismo, le rivoluzioni e le grandi scoperte: immagini che per noi sono i paragrafi di un sussidiario, continuano invece a essere le pulsazioni del mondo. I terroristi del Califfato che si muovono sulla rete mettono in discussione le nostre idee di confini, di controllo del territorio e perfino di Stato, così come le orde di Gengis Khan, muovendosi a cavallo, disorientarono - e schiacciarono - gli "imperi sedentari".
La Russia di Putin e la Cina di Xi, in modi assai diversi, declinano le loro ambizioni imperiali con la consapevolezza di poter sfidare, se necessario, i tabù della comunità internazionale. Al contrario, aggrappati ad un'America sempre più riluttante, gli stati europei si rintanano in un nazionalismo autistico, tra farsa e disperazione. Giocano in ordine sparso, ammiccano oggi alla Russia e domani alla Cina, spesso tentati dal diventare ognuno singolarmente un buon amico dei potenti. Smettiamola e iniziamo a sentirci, tutti insieme, un Impero tra gli Imperi.
INDICE Marzo/Aprile 2015
Editoriale
Monografica
- Come sarebbe il mondo (e l’informazione) senza motori di ricerca?
- Motori di pluralismo nella società dell’informazione
- Motori di ricerca e pluralismo dell’informazione: i risultati di un’analisi empirica
- Diritto all’oblio sui motori di ricerca, le conseguenze indesiderate di una sentenza pericolosa
Istituzioni ed economia
- Grecia ed Europa, il tempo della responsabilità
- Lega Nord: il partito più meridionalista d’Europa
- BCE, petrolio e svalutazione dell’euro traineranno la ripresa? Un po’ di sano pessimismo
Innovazione e mercato
- Essere o apparire ineguali: come si misurano le disuguaglianze
- Più siamo meglio stiamo: il valore economico dell’immigrazione
- Catena del valore e logica hegeliana: qualche consiglio per la politica
Scienza e razionalità
- Scienziati e no. L’eterno dilemma dei non addetti ai lavori
- Expo2015: in campo per andare oltre il passato
Diritto e libertà
- Le liberalizzazioni arrancano. La causa? Il super-ego “benecomunista”
- E’ ora di ricominciare a parlare di imprese
- Legalizzare la marijuana? Non è (solo) una buona idea. È un ottimo esempio