Sono passati ormai trentacinque anni da quando, nel 1976, Francis Ford Coppola ebbe la geniale intuizione di incentrare la trama di Apocalypse Now, una delle più grandi epopee su pellicola mai realizzate, sulla metafora del viaggio lungo un fiume che rappresenta, con un simbolismo che evoca il traghetto di Caronte, la discesa agli inferi della cultura occidentale, il suo lento ed inesorabile processo di declino e putrefazione.

Cinquantaquattro anni dopo il Vietnam, siamo ancora qui a fare o a promettere guerra a culture distanti da noi non solo geograficamente, ma anzitutto nella concezione della vita umana e dell'organizzazione di una comunità politica. Nulla sembra smentire la teoria quasi nietzschiana di Coppola sull'oblio dell'Occidente, paragonabile ad una stella già spenta ma di cui continuiamo ancora a vedere il bagliore. Con la fondamentale differenza che oggi il disertore non è il colonnello Kuntz, un uomo la cui scelta di rinnegare la cultura con cui si è formato è determinata dall'aver sperimentato sulla propria pelle, in prima persona, quell'orrore viscerale descritto con voce tremante dalla figura di Marlon Brando in penombra. A disertare, oggi, sono delle adolescenti austriache, che l'unico orrore che possono dire di aver sperimentato è quello che va in scena nelle sale cinematografiche, come in un film di Hitchcock. Sono le figlie dell'Occidente giunto al capolinea, che ha dimenticato che "il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza" e, annoiate dal benessere prodotto da una civiltà libera e pacificata, partono alla ricerca di visioni del mondo esotiche.

A perdere la bussola, tuttavia, non sono solo i nuovi figli ribelli dell'Occidente che mollano tutto per unirsi alle truppe dell'ISIS. Il relativismo dettato da un certo tipo di correttezza politica che si fa forte del senso di colpa dell'Occidente nei confronti di civiltà meno fortunate ha intaccato anche il posizionamento dell'opinione pubblica su valori politici di base, che non dovrebbero essere soggetti al condizionamento elettorale. Eppure, in un Occidente che fa del relativismo – e non più della libertà – la sua essenza, anche valori fondanti come l'anti-interventismo assumono le sembianze di banderuole che cambiano con il vento dei governi in carica. Dichiarare guerra alle truppe dello stato islamico diventa legittimo se a capo della spedizione c'è un premio Nobel per la Pace. Se a dichiarare guerra è l'ideologia progressista, nemmeno il Papa ci pensa due volte prima di dare la sua benedizione alla "guerra umanitaria". Quel che con un presidente conservatore – guerrafondaio, lo apostroferebbe qualcuno – è da condannare come sporca operazione imperialista, diviene non solo legittimo, ma assolutamente doveroso e sacrosanto sotto il governo del presidente del popolo.

Obama è il quarto presidente americano di fila a tenere un discorso in TV per annunciare il bombardamento dell'Iraq. Diede avvio alle danze Bush senior, e lo seguirono senza soluzione di continuità Bill Clinton, Bush junior e, in ultimo, il presidente in carica. In preda ad allucinazioni e raptus collettivi, continuiamo – per giunta senza rendercene conto – a fare e disfare le sorti di un mondo diametralmente opposto al nostro con operazioni né più né meno presuntuose ed imperialiste di quelle dell'Europa bismarkiana, che si divideva il continente nero come fosse un panettone a Natale. Esattamente allo stesso modo in cui sosteniamo e finanziamo dei regimi, li disfiamo e pretendiamo di decidere come e con chi debba avvenire la successione al potere. Quando poi ci accorgiamo –sempre troppo tardi – che le istituzioni non si possono esportare come le merci e che la democrazia liberale non è il frutto di un'opera di costruttivismo ed ingegneria sociale, ci ritroviamo a fare la guerra a quelle stesse bande armate di cui tessevamo le lodi sui giornali di mezzo mondo, facendo a gara, anche lì, a chi riusciva a fornire loro più sostegno militare in cambio di una maggiore influenza sul territorio a rivoluzione compiuta.

In questo nuovo scenario, lo Stato si fa più ipocrita. È caduta, ormai, la narrazione del nazionalismo, della guerra giustificata dalla legittima ambizione di uno stato di espandersi e arricchirsi ai danni di popoli più arretrati. Per avere l'opinione pubblica dalla propria parte, occorre presentarsi come i falsi profeti di biblica memoria. Il doppiopesismo con cui larga parte dell'intellighenzia progressista che fino a ieri sfilava con la bandiera della pace oggi si sta spendendo in favore dell'ennesimo intervento militare in Medio Oriente ne è la prova schiacciante. Ai tempi della neolingua obamiana la guerra è pace, e per vedere una bandiera arcobaleno bisogna giusto attendere il gay pride.

Il riposizionamento è avvenuto, e così sarà finché non converrà tornare a far finta che l'estremismo islamico non sia quanto di più incompatibile esista con i valori occidentali di libertà, dignità e inviolabilità dell'individuo. Nel frattempo, mentre l'Occidente ha perso ogni capacità di scegliere coerentemente da che parte stare, c'è chi scappa di casa per andare ad imbracciare il kalashnikov perché, ad una civiltà così debole, preferisce una barbarie forte. Mine vaganti che resteranno sulla coscienza di chi, mentre manifesta contro il femminicidio, avvolge con fierezza la kefia intorno al collo.

@danielevenanzi