Paura contro fiducia. Il lato umano del populismo e della sconfitta del PD
Istituzioni ed economia
Compagni di strada o di partito, ho amici intelligenti. Anche troppo. A lungo hanno contrastato la mia sfiducia, un preteso pessimismo elettorale (preteso da loro, per me era realismo) con massicce dosi di dati oggettivi, dati reali, puntuali. Una marea di dati glacialmente obiettiva. Talmente obiettiva e glaciale da ottenere, se possibile, l’effetto di raffreddarmi ulteriormente. “Abbiamo fatto questo, abbiamo fatto quello, gli indici migliorano, siamo molto più avanti di cinque anni fa”, eccetera eccetera.
Non che non veda, non che non capisca, malgrado un’intelligenza probabilmente meno vivida rispetto a chi ha tanti dati in testa e li possiede con competente disinvoltura. E sono convinto che andiamo meglio di prima, so bene quanto è stato realizzato malgrado i tanti ostacoli; ho apprezzato l’impegno di chi in questi anni ha fatto cose giuste da una scomoda posizione di governo, esattamente come ho apprezzato lo sforzo di chi ha provato a dirle, le cose giuste, durante una difficile campagna elettorale. Bisognerebbe riflettere sul fatto, curioso, che gli ultimi due soggetti - chi ha governato bene per cinque anni e chi ha parlato bene negli ultimi mesi - non coincidono, almeno in parte. C’è un perchè, ci torno in chiusura.
Il punto è che nel trasferire questa pur forte convinzione ad altri mi sono scontrato con un’indisponibilità all’ascolto mai avvertita prima, e fondata su aspetti non sempre o non del tutto riconducibili alla deriva populista. Aspetti invece spesso ancorati a dinamiche emotive, psicologiche, intime; a una manifestazione di paure personali, forse scomposta ma no, non necessariamente populista, ed in fondo del tutto comprensibile ed umana.
L’umano. Che parola abusata. E allo stesso tempo trascurata. Probabilmente la categoria chiave di un’analisi che, affrontata con coraggio ed onestà, potrebbe portarci da qualche parte. L’umano è quello che parla, e che prima di parlare vive uno stato d’animo che orienterà tutto quello che ascolteremo da lui. Le cazzate più stupide come i brillanti sofismi. Le volgarità su negri e gay come le salutari lezioni di civiltà; persino i dati snocciolati con sufficienza, quasi fossero perle per i porci. E i porci sono magari troppo stupidi per leggere i numeri, ma non abbastanza per non sentirsi talvolta perduti, irrilevanti a ogni scopo.
L’umano è anche l’altro che ascolta, quando ci riesce, che altrimenti sente e basta. Quello che prima ancora che la parola sia stata pronunciata ha tutto un sé da governare, spesso inesplorato e sempre più precario, che darà a quella parola una direzione imprevedibile. Come una palla in un flipper, che si scontra con i birilli e con il caso.
Non scopriamo niente di nuovo, è evidente. Da sempre in politica si parla o si dovrebbe parlare all’umano. Il punto è come lo facciamo, e con quale idea di umano pensiamo di entrare in relazione. A me pare che pur nella volgarità e nella strumentalità della proposta (perchè è proposta anche quella, anche se viola il rigore dei numeri e la continenza logica) Salvini e Di Maio abbiano un modello piuttosto preciso dell’umano con cui intendono relazionarsi.
Dico umano e non persona, perché in ogni persona esistono diversi livelli e articolazioni dell’umano, a volte anche in conflitto tra loro. Puntano, i cosiddetti populisti, su un umano disintegrante, distruttivo, su una pulsione annullatrice ma come tale - almeno in teoria - potenzialmente rigeneratrice. Un umano negativo, in senso letterale, ma identificabile.
Diversa è la situazione di chi, specie in questo quadro di forte condizionamento emotivo, che dal privato si trasferisce sul pubblico, sceglie - per raccontare un progetto e chiedere relativa fiducia politica - una via puramente numerica, asettica, igienicamente razionale. I dati, insomma, le realtà statistiche, i discorsi e le lezioni cui accennavo all’inizio: “sbagliate a pensare di stare peggio, gli indicatori indicano esattamente il contrario”. Ma insomma, i dispensatori intelligenti di verità indiscutibili (che sono indiscutibili perché oggettive) hanno mai sofferto per un amore finito, per una preoccupazione illogica, per una malattia immaginaria? Hai voglia a dire a un amante deluso che troverà presto di meglio; e non sarà facile convincere chi teme un male, pur improbabile, che alla fine non capiterà nulla. Ma di sicuro niente funzionerà peggio della banalizzazione di quell’asserito malessere: “Stai bene perché lo dicono gli indicatori”.
La banalizzazione impedirà in principio la costruzione di una relazione di fiducia, indispensabile anche solo come premessa del confronto. E allora, prima ancora di discutere di quale modello di legge elettorale debba licenziare il nuovo parlamento, prima ancora di pensare alle scomposizioni dell’esistente partitico e alle alleanze future, prima di prepararsi a chiedere conto all’avversario di turno di tutte le idiozie raccontate per un lustro almeno, prima di tutto questo converrebbe chiedersi: a quale umano vogliamo parlare noi, popolo non populista?
Io credo che la risposta stia nella folgorante ascesa di Matteo Renzi. Rottamazione a parte, quando iniziò la sua scalata, prima al Pd e poi a Palazzo Chigi, Renzi puntò a un umano in realtà molto normativo, costruttivo, che condividesse e stabilisse una regola il più possibile chiara ed inequivoca. La definizione di un percorso di impegni comprensibili, insomma, di cui i politici fossero i primi garanti. Perché il cittadino da sempre chiede ai politici di dare l’esempio. E forse pensa di chiedere loro indietro i soldi dello stipendio proprio quando si rende conto che l’esempio è impossibile; e ad un’onestà dei fatti, cui semplicemente non crede più, arriva a preferire l’onestà paradossale della rinuncia e della restituzione. Perché quella perlomeno è concretamente misurabile.
Almeno nella prima parte della sua parabola Renzi è stato molto bravo nel rivolgersi ad uno specifico umano ansioso di costruzione, e la sua capacità nel farlo (e prima ancora soprattutto nel pensarlo, nell’osarlo) rimarrà nella storia della politica italiana. E’ stato infatti il primo e l’unico ad assumere impegni ambiziosi e precisi (sottolineo: precisi, definiti, intelleggibili), addirittura autoimponendosi un rigido regime sanzionatorio in caso di trasgressione dei medesimi. Fino alla promessa suprema e mancata, quella di un addio mai dato, che per valore simbolico è stata - come sostengo da mesi - la tomba della sua credibilità di uomo politico.
Non ho mai pensato che si potesse sopravvivere a quel tradimento, mi sono stupito che nessuno ne rilevasse appieno la gravità, spesso derubricando il fatto ad “errore necessario” e aggiungendo che “in fondo non è stato il solo a rimangiarsi le parola”. Quanto hanno capito poco di Renzi tanti renziani, quanto hanno sottovalutato la vera e fondamentale abilità del loro capo. Certo che non è stato il solo a rimangiarsi la parola, ma probabilmente è stato davvero l’unico ad essere creduto, fino in fondo, da una maggioranza mai tanto vasta ed eterogenea. L’unico a provarci, l’unico a riuscirci, l’unico a prendersi un 40% che resterà irripetibile.
Ragion per cui la delusione di chi è stato tradito non poteva che essere proporzionale, soprattutto in termini elettorali, all’altezza della sfida di Matteo Renzi. Una sfida tradita che è stata prima di tutto un umano tradito. A corollario registriamo una serie di giravolte di minor portata (dall’Europa ai migranti) che hanno avuto soltanto la funzione di confermare la percezione di un bluff ormai consumato e di un uomo alle corde. Talmente alle corde e confuso da inseguire i competitor sul loro terreno, lasciando ad altri le antiche sfide.
La scelta di affidare battaglie nobili a forze politiche per così dire vergini, o all’umanità carismatica di una donna come Emma Bonino contiene forse anche la consapevolezza tardiva di dover rimediare ad un vulnus di credibilità di cui si sia avuta, a un certo punto, la chiara percezione.
E’ stato difficile accettare che impegni assunti con successo dal Partito Democratico prima ancora del 2014 - sui rigore dei conti pubblici, sul commercio internazionale, sulla proiezione europea e sulla cosiddetta società aperta - venissero appaltate a movimenti di assoluto valore ma storicamente e inevitabilmente minoritari. E’ stato sorprendente rilevare come neppure questo abbia più di tanto turbato una dirigenza democratica completamente silente, aggrappata alla figura rassicurante di Gentiloni come Linus alla sua coperta.
Così mentre il Pd ha vagato nei ripensamenti e nei controripensamenti del suo leader, buona parte della bontà e dell’autorevolezza di un’esperienza di governo è stata affidata al carisma altrui e a tanti, tantissimi dati, numeri e più che validi ragionamenti: talmente oggettivi, puntuali e giusti da non poter convincere fino in fondo. Tantomeno quelli che già avevano creduto a promesse semplici, chiare e precise, e che sarebbero stati disposti a crederci ancora, se solo fosse stato possibile. Ma non lo era più.
A volte non ci rendiamo conto che la politica non è diversa dalla vita di tutti i giorni. In cui soffriamo per tante cose, ma in cui nulla è più doloroso dell’abbandono e del tradimento. La fiducia è la parte di umano più costruttiva e feconda. La fiducia può vincere sulla rabbia ma è fragile, e la seconda si nutre appunto della fragilità della prima. Averla conquistata è stato il trionfo di un umano positivo mai così coinvolto in politica, e io credo stia in questo il vero grande merito di Renzi.
La sua dispersione non poteva essere meno deflagrante e drammatica. Ma è senz’altro da lì che bisogna ripartire. Senza presunzioni di infallibilità, con semplicità, chiarezza e la voglia di “andare verso” chi ha ancora voglia di impegnarsi per qualcosa che non si riduca a un rifiuto. Sono in tanti. Non bisogna illuderli, non bisogna tradirli.