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Sulle elezioni britanniche, conviene lasciare la parola ai numeri oltre gli slogan: i Tory guidati da Theresa May hanno guadagnato 1 milione di voti rispetto all elezioni del 2015, sotto la leadership di David Cameron (13,6 milioni contro 12,3). Jeremy Corbyn ha addirittura raccolto oltre 3 milioni di voti in più del suo predecessore Ed Miliband (12,8 milioni contro 9,3 di due anni fa).

A perdere consensi e seggi sono stati gli indipendentisti dello Scottish National Party, probabilmente penalizzati dall'attrazione esercitata dal leader laburista sull'elettorato scozzese più "rosso), mentre i LibDem hanno perso una manciata di voti, guadagnando però qualche seggio in più. È probabile che sia stato l'assorbimento del voto Ukip da parte sia dei Tory che del Labour - entrambi con piattaforme più estreme del passato, più protezioniste e in fondo populiste - a determinare uno stallo curioso.

La May ha fatto meglio di Cameron, ma l'impressionante capacità di Corbyn di rivitalizzare il voto laburista (siamo su livelli blairiani, in termini di consenso) consegna alla regina e ai cittadini britannici un Parlamento senza una chiara maggioranza, dunque senza la possibilità di un governo con la forza necessaria al difficile compito del negoziato sulla Brexit, tanto più se i conservatori si dovessero trovare a formare un governo di coalizione con il partito nordirlandese DUP, contrario a una hard Brexit che pregiudichi la libera circolazione degli irlandesi tra le due entità politiche dell'isola.

Alchimie e conteggio dei seggi a parte, però, il voto britannico non dovrebbe far esultare gli oppositori della Brexit. Gli elettori non hanno espresso nessuna bocciatura rilevante ai Tory, e Corbyn non è mai stato un campione del Remain. Anzi, analizzando in controluce le proposte politiche dei due principali leader politici, si leggono molti tratti in comune. Riflessi protezionisti, di ripiegamento e di chiusura, interpretati secondo categorie distinte e distanti ma destinate a simili ricadute pratiche.

Con questo voto, gli inglesi hanno ignorato il partito con una piattaforma spiccatamente europeista (i Libdem) e hanno abbandonato quello costitutivamente antieuropeista (l'Ukip). È come se avessero ormai interiorizzato la Brexit, la considerano un dato acquisito, non ritrattabile. In fondo, come fanno tutti, hanno votato al referendum con in mente le proprie personali condizioni sociali ed economiche, e con queste istanze ragionano ancora oggi. I loro governanti presenti e futuri, comunque, sembrano non avere armi sufficientemente potenti per affrontare il negoziato con la UE da una posizione di forza.

Benvenuti nel mondo in cui le elezioni non chiariscono le cose, ma le complicano.