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Due debolezze, il Regno Unito e l’Unione Europea, l’una contro l’altra disarmate. La giornata di ieri ha consegnato un’immagine disperante dello stato delle cose nel nostro Continente.

A Westminster si è tenuta ieri una delle sedute più difficili degli ultimi decenni, ma anche tra le più bizzarre. Tutto il dibattito tra i parlamentari e il premier David Cameron è stato incentrato su come il Regno Unito prossimo venturo, non più membro UE, riuscirà a tutelare la sua partecipazione al mercato unico europeo una volta che sarà fuori dalla UE e su come assicurare imprese e lavoratori europei che operano e vivono sul suolo britannico.

Un deputato laburista ha chiesto a Cameron: “Il signor primo ministro ci può far l’esempio di un altro paese europeo, non membro UE, che riesca oggi a partecipare al mercato unico senza dover rispettare il principio della libertà di circolazione delle persone o che non contribuisca al bilancio comunitario in maniera significativa?”. Cameron ha dovuto ammettere che questo Paese non esiste: la Norvegia strapaga il suo diritto all’accesso al mercato unico, la Svizzera accetta la libertà di circolazione. Si tratta comunque di paesi di dimensione ridotta che non hanno mai aderito all’Unione Europea.

Per il Regno Unito, invece, si tratta ora di negoziare con gli altri paesi membri (e la negoziazione sarà complessa e farraginosa) le condizioni con cui poter continuare ad essere, da Paese extra-UE, il più simile possibile ad un paese UE in termini di integrazione economica. Quando inizieranno i negoziati? Quando il Regno Unito “premerà il pulsante”, cioè quando attiverà la procedura prevista dall’Articolo 50 del Trattato UE.

Cameron ha annunciato le sue dimissioni dopo l’estate e lascerà l’incombenza della comunicazione formale al prossimo governo. I trattati UE cesseranno di essere applicabili al Regno Unito a partire dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso tra le parti (tutto da negoziare) o, in mancanza di questo accordo, entro due anni dalla notifica (a meno che Londra e il Consiglio europeo siano d'accordo nel prorogare tale termine). L'accordo dovrà stabilire le modalità per l'uscita e le nuove relazioni “bilaterali” UE-UK.

Le procedure non saranno semplici: l'accordo dovrà essere approvato a maggioranza qualificata dal Consiglio, previa approvazione del Parlamento europeo (voteranno anche i parlamentari britannici, ovviamente). L’incidente potrebbe essere dietro l’angolo in ogni momento, il tentativo di Londra di massimizzare gli utili (conservare l’accesso al mercato unico) e minimizzare le perdite si scontrerà con gli interessi degli altri paesi membri che avranno il coltello dalla parte del manico: senza accordo e senza rinnovo dei due anni, il Regno Unito sarebbe completamente fuori dal mercato unico, considerato alla stregua di un qualsiasi paese non europeo aderente al WTO.

Certo, non converrebbe a nessuno, né ai britannici, né agli europei continentali. Le ripicche e le facce feroci rischiano di determinare l’incidente, non di evitarlo. E ieri Angela Merkel ha proposto a Francois Hollande e a Matteo Renzi la propria visione: dare al Regno Unito quel che David Cameron ha chiesto, i mesi necessari per formare un nuovo governo ed elaborare una prima proposta di uscita, sulla base della quale far partire formalmente la richiesta di recesso. Fino a quel momento, secondo la più classica delle strategie merkeliane, si tengono i nervi saldi e si procede senza accelerazioni e atteggiamenti vendicativi. In fin dei conti, le opinioni pubbliche europee – non solo quella britannica - scopriranno quanto sarà difficile uscire concretamente dall’Unione Europea. O meglio, uscirne indenni senza pagare a carissimo prezzo la fine dei benefici economici e sociali prodotti dal mercato unico e dalle libertà fondamentali dell’Unione.

Alla debolezza attuale del Regno Unito (con un elettorato praticamente frantumato per blocchi sociali e i principali partiti in grave crisi di leadership), si somma la debolezza intrinseca dell’Europa. C’è chi preferirebbe vedere scorrere il sangue a Londra, sperando che questo impressioni le opinioni pubbliche nazionali sempre meno euro-entusiaste. C’è chi non sa far altro che reagire agli eventi con l’affermazione della propria autoreferenzialità (il presidente della Commissione Europea Juncker, ad esempio) o con l’eterno ritorno all’Europa intergovernativa, quella dei vertici dei capi di governo, degli assi, dei vertici in cui si decide che un giorno si deciderà qualcosa. Ma intanto, si dice no al TTIP, si rinuncia ad avere un ruolo nelle crisi mediorientali che hanno acceso l’incendio migratorio o si rimanda sine die la liberalizzazione del mercato dei servizi avanzati.

Sullo sfondo, resta l’unica vera forza che sarebbe capace di rianimare l’Europa, la sua politica stanca e la sua economia anemica: i “nativi europei”, nati e cresciuti nei decenni della pax europea e della società aperta. Sono una minoranza dell’intera popolazione continentale, ma ne sono il motore economico, sociale e culturale. Più di altri, nei decenni a venire, pagherebbero i costi di un ripiegamento nazionalista dell’Europa e di un lento isolamento del Vecchio Continente. Passa da loro e dalla loro capacità di mobilitazione politica l’unica vera chance di ripresa e di rilancio di quel sogno di libertà e pace chiamato Europa Unita.