La politica europea di Renzi non è solo sbagliata. È proprio impossibile
Istituzioni ed economia
'La visione tecnocratica/burocratica tutta deficit e banche distrugge l'Europa più dei populismi. Noi siamo per un'Europa popolare. A me non preoccupano le parole di Marine Le Pen. Preoccupa più l'uscita di Angela Merkel sull'Europa a due velocità. A questo punto, o si cambiano le regole o questa Europa non ha più senso'.
Il concetto è chiaro, ma questo purtroppo è il problema, perché la prima parte della frase (fino a "popolare") è di Matteo Renzi ieri ad Otto e Mezzo e la seconda di Paolo Romani, che in un'intervista di qualche tempo fa giustificava così l'alleanza del berlusconismo cosiddetto moderato con l'antieuropeismo della Lega. Eppure tra la prima e la seconda parte del discorso non si sente alcuna incoerenza o contraddizione.
Se il parlare d'Europa del capo del PD è uguale e perfettamente sovrapponibile a quello dell'euro-sfascismo militante e attinge, in modo volutamente mimetico, allo suo stesso repertorio retorico, psicologico e perfino "sentimentale" questo non significa, evidentemente, che Renzi è uguale a Salvini, o a Grillo o a Berlusconi, ma dimostra, come minimo, che il PD (diciamo "il PD che conta") ritiene tatticamente inevitabile la subordinazione all'egemonia culturale anti-europeista e possibile l'impresa di sterilizzare la rivolta contro Bruxelles inglobandone e neutralizzandone la portata eversiva, ma riconoscendone, al contempo, la legittimità e la fondatezza politica.
Renzi insomma non sembra credere che sia possibile confermare il ruolo di partito di sistema per il PD in un Paese profondamente contagiato dall'idea che l'Europa che c'è sia la causa dei nostri mali recenti e meno recenti e non lo strumento o il contesto grazie al quale sarebbe possibile approntare i più efficienti rimedi. Difficile (e forse anche inutile) capire quel che pensi davvero.
È evidente che l'anti-europeismo che oggi esibisce ha un'intonazione più di sinistra che di destra, più anti-rigorista che nazionalista, più astrattamente "federalista" (in nome di un principio assolutamente indeterminato di solidarietà europea) che sovranista. Ma il dato di fondo - perché in politica conta ciò che si dice e si fa, non quello che si è o si pensa - è che l'ex premier ha schierato il PD non "contro", ma "dentro" il discorso politico anti-europeo.
La scelta ha delle conseguenze evidenti, per il PD e anche per il Governo, imprigionando entrambi nella contraddizione irrisolvibile di non potere oggi propugnare l'Italexit - come vorrebbero di fatto Grillo e Salvini - ma di non potere neppure accettare - si pensi alle polemiche contro il Fiscal Compact e all'annunciato veto italiano al suo inserimento nei trattati - quello che oggi rappresenta l'imprescindibile presupposto per una maggiore integrazione europea e per un orientamento più coerentemente federale delle politiche dell’Ue. Senza "austerità", cioè senza un quadro di regole comuni vincolanti sulle politiche di bilancio nazionali, non è possibile nessuna "solidarietà", cioè nessun trasferimento di risorse fiscali da alcune aree dell’Unione ad altre.
È tutto da vedere se la resa al mainstream anti-europeo ripagherà il PD al momento del voto consentendogli di sommare ai voti dei preoccupati quelli degli arrabbiati e a quello degli europeisti quello degli antieuropeisti (vaste programme). Ma non mi pare che ci siano dubbi sul fatto che una "politica europea" come quella impostata dal segretario del PD, prima che sbagliata, è proprio impossibile per un Paese che non ha pistole da mettere sul tavolo delle trattative e ne ha ancora troppe - a partire dal debito - puntate alle tempie dopo gli azzardi del passato.