antifasci big 

Metà del Paese è antropologicamente fascista. E, beninteso, non è al fascismo del ventennio che ci si riferisce, la mancata storicizzazione del quale (si è scelto un approccio demonizzante anziché "avalutativo") ne ha paradossalmente determinato la periodica reviviscenza, di volta in volta confezionato con packaging politici spesso non riconoscibili: dal Fronte dell'Uomo Qualunque al Movimento Cinque Stelle, passando per quel partito giustizialista mai strutturatosi come tale ma onnipresente in forma eterea e quasi a-storica dall'assassinio di Aldo Moro (giudicato non a caso da un "Tribunale del popolo") all'esilio di Bettino Craxi, previa grandinata di monetine, per non parlare della forma di fascismo meno riconoscibile ma più frequente, e cioè quella che si traveste del suo opposto.

Né, men che meno, ci si riferisce al postfascismo questo, dimostrando più lealtà alle istituzioni repubblicane di quanta non ne stia dimostrando oggi la cosa giallo-verde, e per di più inchiodato all'opposizione da una conventio ad excludendum, ebbe una sua rispettabilità anche prima della svolta di Fiuggi o del celebre "sdoganamento".  Il fascismo cui ci si riferisce è un fenomeno transpolitico, qualcosa di simile (ma non perfettamente sovrapponibile) a quello che Umberto Eco battezzò "ur-fascismo".

In Italia il fascismo fu, come disse Piero Gobetti, l'autobiografia di una nazione, non, come disse invece Benedetto Croce, una parentesi: la democrazia liberale, piuttosto, è una lunghissima parentesi, parentesi che sta su grazie a fattori tanto materiali (piano Marshall, monetizzazione del debito, statalismo, quantitative easing…) quanto spirituali ("formalizzazione" e costituzionalizzazione dell'aggancio agli USA e all'Europa, rivoluzione digitale…). Dopodiché basta un nonnulla perché gli italiani si rivelino per quel che sono davvero antropologicamente, si diceva. E cioè vulnerabilissimi alle sirene della semplificazione populista sedicente postideologica, laddove per "populismo" s'intende tanto la declinazione postmoderna dello stesso – e cioè l'esaltazione acritica e assolutoria della massa nazionale e la demonizzazione delle élites, che degenera sia nel plebiscitarismo antiparlamentarista che nell'ostilità a misteriosi oligarchi stranieri – che "decrescitista" – come fu il populismo originale, quello rurale russo –. 

Il "decrescitismo" in questione, in particolare, nello storytelling grillino è "felice", perché come nelle peggio distopie anche in quella pentastellata si statalizzano i sentimenti; si tratta cioè di un progetto di de-industrializzazione totale e più generalmente di un'anacronistica de-tecnologizzazione, propagandato tramite blog, smartphone, tablet…: e siamo, ancora una volta, al paradosso del modernismo reazionario, e cioè del ritorno a un medioevo corporativo e autarchico (abbondantemente idealizzato, in quanto di derivazione romantica, da "Signore degli anelli") propagandato tramite tecnologie avanzate, quei mass media di cui lo stesso Mussolini si serviva scaldare e potenziare la sua base elettorale. Va detto che questa tendenza ideologica caratterizzava più la fase primo-movimentista del grillismo che quella quasi-governativa dello stesso, nella quale, tuttavia, le politiche economiche sono comunque rimaste "venezuelane".

Infatti, nel populismo in oggetto è incluso anche quel nazionalismo caricaturale da sagra della polenta – gli stranieri ci tengono sotto il loro giogo! Sovranismo (territoriale, monetario) e si è tutti più ricchi e più italiani! Al rogo il libero mercato! – e quel securitarismo antigarantista e xenofobo con i quali espiamo la nostra mediocrità piccolo-borghese, "slatentizziamo" le nostre frustrazioni (il nostro servilismo fantozziano si accumula, ribolle per poi esplodere in ribellismo squadrista) e autoassolviamo le nostre colpe.

Ognuna di queste peculiarità è presente in dosi diverse e in forme anche digitalizzate nella cosa giallo-verde… e non solo ci si ostina tutt'oggi a non realizzarlo, ma il nostro establishment mediatico-culturale (di sinistra!) gli ha perfino tirato la volata, negli ultimi dieci anni. Politologi, costituzionalisti, registi ecc, quando non esplicitamente organici al Movimento medesimo – mai alla Lega, colpevole di esplicitare la propria natura lepenista –, gli sono stati quantomeno non-ostili gridando al «lupo! al lupo!» per qualunque pur fisiologica personalizzazione della leadership e proposta di modernizzazione dell'apparato politico-istituzionale del Paese (così con Berlusconi, così con Renzi), ma ignorando gli elementi autenticamente illiberali presenti nell'azienda-partito di cui sopra più che in ogni altro soggetto politico apparso da decenni a questa parte. Molti di loro, come se non bastasse, hanno continuato a dargli man forte redarguendo il Capo dello Stato per il mancato appeasement nel caso Savona…

Il leader del partito di maggioranza relativa ha annunciato la messa in stato d'accusa del Capo dello Stato e – quel che è più grave – ha convocato le piazze per una specie di contromanifestazione del 2 Giugno, così fomentando e indirizzando contro il Quirinale gli umori insurrezionalisti della constituency pentastellata (!), salvo poi tirarsi indietro e rincontrare Mattarella come se nulla fosse stato. 

È la postideologia, bellezza: le parole pesano meno di zero e il principio di non contraddizione è derogato; Di Maio può dire «lo Stato siamo noi [del M5S]» e, dietro di lui, altri colonnelli della Casaleggio srl possono dire «noi [del M5S] siamo la totalità» o, ancora, «vogliamo lo stato etico», così certificando la vocazione pericolosamente antipluralistica del Movimento, senza che nessuno faccia un plissé. Si sono evocate, in poche ore, la fascistizzazione dello Stato del '26; la monopolizzazione della rappresentanza politico-partitica (… il termine totalitarismo, prima delle altissime speculazioni postbelliche, quella arendtiana su tutte, indicava per l'appunto le dittature monopartitiche, e apparve per la prima volta nella voce «Fascismo» dell'Enciclopedia Italiana – fermo restando che il fascismo italiano fu un totalitarismo imperfetto); e, infine, si è fatto esplicito riferimento allo «stato etico», concetto di derivazione hegeliana poi sviluppato da Giovanni Gentile – filosofo ufficiale del regime fascista, combinazione! – stando al quale l'individuo non è, come nella tradizione giusnaturalistica, titolare di diritti che sussistono prima dello Stato e a prescindere dallo stesso, ma un elemento che non può che realizzarsi nello Stato (con tanti cari saluti, dunque, ai diritti umani).

Tutto questo, insomma, è iscritto nel codice genetico di parte maggioritaria degli italiani, portatori sani (sani dal '45 a oggi) di fascismo. Nel mercato politico, così come in quello delle merci, domanda e offerta interagiscono dialetticamente, l'una influenzando l'altra col concorso di fattori esogeni. Il governo giallo-verde c'è perché gli elettori italiani l'hanno voluto. Che Dio ce la mandi buona.