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Si può pensare quel che si vuole di chi va a lavorare all’estero, così come si può pensare quel che si vuole dei diritti di chi lavora. Opinioni. Il dramma di una generazione in fuga dall’Italia può suscitare reazioni sgradevoli (eufemismo) come quelle del ministro Poletti, e i contratti di lavoro atipici possono essere considerati una deroga intollerabile a diritti consolidati, quindi da evitare costi quel che costi. Costi anche una contrazione delle opportunità di lavoro.

Quel che invece non si dovrebbe pensare, perché è un errore vero e proprio, è che una maggiore rigidità del mercato del lavoro, in un paese che attraversa una drammatica crisi di produttività e che non cresce - o cresce in maniera asfittica - almeno da un paio di decenni, possa determinare un aumento delle occasioni di lavoro. In parole povere, che abolendo i voucher o limitandone drasticamente gli ambiti di impiego ci sarebbero meno giovani costretti a cercare una vita dignitosa all’estero.

La spericolata correlazione l’ha fatta Roberto Speranza che ha minacciato, a nome della minoranza del PD, di votare la mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni contro il Ministro del Lavoro Poletti: “via i voucher o sfiducia”, il titolo di un suo intervento sull’Huffington Post in cui offre al ministro la possibilità di redimersi dalla brutta frase sui giovani all’estero eliminando, appunto, i voucher. Ma cosa c’entrano i voucher con i giovani all’estero? Nulla.

Come ha spiegato Roberto Cicciomessere su queste pagine, analizzando i dati INPS e ISTAT emerge che solo una quota minore dei voucher viene utilizzata come forma di elusione fiscale e previdenziale:

Per oltre tre quarti dei prestatori di lavoro accessorio (76,9%) questa attività rappresenta il secondo lavoro o la fonte integrativa del reddito (studenti, pensionati, beneficiari di ammortizzatori sociali, dipendenti e autonomi), mentre per il rimanente 23,1% è l’unica fonte di reddito regolare che, probabilmente, copre un lavoro svolto prevalentemente in nero o grigio.

L’idea quindi secondo la quale i voucher rappresentano una nuova forma di precarietà destinata a surrogare in pianta stabile contratti regolari, nonostante si stia trasformando nel nuovo mantra di un paese sempre alla ricerca di alibi a buon mercato, è smentita dai fatti che raccontano prevalentemente di emersione del sommerso e di integrazione al reddito. Ma anche se si ritenesse questo strumento una compressione intollerabile a diritti non negoziabili dei lavoratori, bisognerebbe comunque avere l’onestà intellettuale di ammettere che la sua abolizione ridurrebbe le opportunità di reddito, non le aumenterebbe.

Altri dati, invece, raccontano del declino della produttività del lavoro in Italia, ed è lì che bisognerebbe andare a guardare se davvero avessimo a cuore il destino delle giovani generazioni di questo paese, tanto di quelli che se ne vanno quanto quelli che restano: per quale ragione un’ora di lavoro lavorata in Italia produce meno, molto meno che altrove?

Siamo sempre lì, a ripeterci le stesse cose: mancanza cronica di investimenti in ricerca e innovazione, pressione fiscale insostenibile, burocrazia pubblica ostile a chi produce ricchezza, sistema economico impermeabile alla concorrenza e ingessato dai corporativismi, giustizia civile degna di un paese del terzo mondo che impedisce di risolvere le controversie in tempi a malapena accettabili, infrastrutture - sia fisiche che virtuali - fatiscenti o inadeguate, sistema previdenziale iniquo che carica sulle spalle di chi lavora il reddito di chi è in pensione e, per finire, mercato del lavoro ancora troppo rigido e duale, nonostante il Jobs Act.

E’ la produttività totale dei fattori, ovvero la misura dell’efficienza con la quale i fattori di prodttività vengono impiegati nell’economia di un paese. Se era corretto sostenere che il Jobs Act e i voucher, da soli, non avrebbero potuto risollevare una economia così provata dalla crisi di tutti i fattori di produttività - e forse un po’ più di realismo avrebbe giovato anche alla propaganda del governo - allo stesso modo e a maggior ragione non si può credibilmente sostenere il contrario.

Speranza, se fosse meno Speranza (qualcuno ha detto “Giachetti”?), potrebbe stimolare il governo su tutti questi capitoli, sui quali siamo drammaticamente indietro. E poi magari potrebbe anche chiedere le dimissioni di Poletti, se crede. Ma per le cose sbagliate che ha detto, non per quelle giuste che ha fatto.

@giordanomasini