Putin e l'Occidente: una partita a scacchi verso una nuova Yalta
Istituzioni ed economia
Il più classico “che fare?” di leniniana memoria attanaglia la stampa internazionale, chiamata dopo mesi a ragionare non tanto sull'ascesa di Putin come leader globale - ormai un dato di fatto - quanto sul comprendere quali siano i reali intendimenti dello Zar e quali limiti intenda porre alla sua azione. Stessa domanda gira per le cancellerie occidentali, dove però si declinano risposte legate agli interessi nazionali e alla politica interna più che a ragionamenti geostrategici, il tutto favorito dall’infausto fallimento della dottrina multilaterale americana e dal vuoto causato dalle imminenti elezioni. Un vuoto in fisica e in politica non esiste, e infatti Putin lo ha rapidamente colmato, riportando la discussione sul suo contenimento alla antica divisione reaganiana tra falchi e colombe.
In Italia abbiamo come sempre raggiunto i massimi: mentre la Svezia, fuori dalla Nato, è costretta a rimandare sull'isola baltica di Gotland almeno una frazione del contingente di 25.000 uomini che ne curava la sicurezza durante la guerra fredda, noi - membri della NATO - ci precipitiamo a dire che la manciata di soldati che nel 2018 manderemo nei paesi baltici all’interno di una turnazione della alleanza non può "definirsi un'aggressione". E ci mancherebbe altro: è un obbligo di solidarietà tra alleati ed è ridicolo sentire i populisti di mezzo parlamento urlare “Fuori l’Italia dalla NATO”, slogan che per chi è almeno di mezza età suona come un sorprendente barrito dal cimitero degli elefanti.
Vediamo di mettere in riga qualche ragionamento. I russi covano da ventanni un senso di umiliazione e una volontà di rivalsa su un Occidente che, seguendo la dottrina di due emigranti, Albright e Brzezinski, avrebbe provato ad accerchiare la loro potenza nucleare, violando lo storico modello di difesa russo basato sullo spazio e su stati cuscinetto. In aggiunta delle tre basi militari residue fuori dalla Rodina, gli americani ne hanno neutralizzate due, Cuba e Vietnam, e sulla terza, quella siriana, stava per cadere la mannaia. Gli ammiragli della Voenno-morskoj flot sono riusciti per un pelo a riprendersi manu militari l’unico porto che garantiva un pescaggio per le navi da guerra, la Crimea, ma hanno guardato con impotenza la caduta della Libia, storico alleato, mentre sullo sfondo sembrava che l’intero scacchiere geostrategico mondiale fosse concentrato sul Mar Cinese Meridionale con le sue contese sul predominio dei mari e la relativa sicurezza della nuova potenza globale.
Alla ripresa di iniziativa militare russa in Ucraina, l’Europa ha accettato l'imposizione di sanzioni economiche su richiesta degli americani. Le sanzioni hanno incrinato la dottrina di politica estera tedesca che si imperniava sul “mai più nemici a oriente” e quindi su un rafforzamento dei legami economici con Russia e Cina. In pochi mesi il fragile Pil russo è precipitato (ricordiamoci che l’economia russa vale circa quanto quella italiana ed è dipendente dal petrolio sulle entrate e dalle spese per la difesa sulle uscite) ma Putin ha avuto due carte forti in mano: l’orgoglio ferito del popolo russo di cui sopra e le “inique sanzioni” dell’Occidente: se i russi stanno peggio si può sempre dare la colpa al’America.
Ciò ha imbavagliato la opposizione e creato consenso intorno ad una vera e propria escalation diplomatica e militare imperniata su quelli che per noi sono due scenari diversi, est Europa e Medio Oriente, ma che per lo Zar sono una unica partita che va su un arco spaziale (lo spazio, sempre quello) dalla penisola di Kola sino a Israele e per chiarire possibili equivoci ha spedito l'unica e arrugginita portaerei russa, la Admiral Kuznecov, dalla Flotta del Nord dove normalmente staziona sino al Mediterraneo.
In aggiunta ha consolidato la sua sfera di influenza implementando la più celebrata tattica militare contemporanea, la cosidetta A2/AD Anti Access/Air Denial: in Siria e sui confini Ucraini (qualcuno dice dentro i confini) sono state posizionate le sofisticate batterie anti aeree e antimissile S300 e S400, affiancate nel Mediterraneo da una flottiglia di navi ugualmente attrezzate con l’intento, raggiunto, di interdire sia lo spazio aereo agli americani sia l’utilizzo di missili cruise su possibili bersagli di interesse strategico russo. Il che significa ad esempio che non è possibile colpire alcun bersaglio di Assad senza trovarsi di mezzo il rischio di un confronto armato con una potenza nucleare.
Fino qui tutto bene (si fa per dire): la Russia si è mossa cercando di salvare ad ogni costo ciò che era rimasto del vecchio impero sovietico, nulla di più. Ciò che invece a poker chiameremmo un All In, che rappresenta un salto di qualità e che materializza un pericolo chiaro e attuale del quale in Italia non vogliamo renderci conto sono due nuove mosse: la prima, il rigetto dell’accordo internazionale sulla gestione del plutonio, uno dei patti scaturiti dalla volontà di diminuire il rischio nucleare; la seconda, pesantissima, l’aver piazzato i reggimenti missilistici nucleari dotati degli Iskander M nella enclave di Kaliningrad, letteralmente scardinando il sistema difensivo della Nato. Prendetevi una cartina, dopo aver guardato dove è Gotland e perché gli svedesi ci hanno rimesso i soldati tracciate da Kaliningrad un cerchio di 600 km, la gittata missilistica, e troverete dentro Ucraina, tutta la Polonia, i confini Cechi e, last but not least, Berlino. Sì, Berlino, quella del muro, torna sotto tiro nucleare diretto da parte dei russi.
Il terzo salto di qualità è stata la minaccia diretta agli Stati Uniti: sembra una parola grossa? E perché, come lo chiamereste l’attacco degli hacker? Come chiamereste il fornire le informazioni raccolte dagli stessi a quel grande altoparlante che si chiama Assange? E, infine, come chiamereste il tentativo di influenzare le elezioni di un altro paese? Finchè si tratta di “contribuire” alle attività di qualche partito populista europeo, non è gran cosa; ma entrare nel sistema elettorale americano sponsorizzando un candidato o lavorando sull'elettronica fa capire che ancora non si conoscono i limiti che Putin può porsi.
Gli Iskander a Kaliningrad invece sono un messaggio inequivocable: il consolidamento russo era solo il primo passaggio del piano di Vladimir Putin; il suo obbiettivo è ricacciare indietro la Nato, ripristinare la dottrina dello spazio e gli stati cuscinetto, sedersi al tavolo delle potenze mondiali nella logica di Yalta. Logica che noi non possiamo accettare perché se è vero - come scrive Kaplan sul WaPo - che in politica estera gli interessi vengono prima dei valori, noi abbiamo anche dei valori - democrazia, diritto - come interesse: la pace nasce da lì, non dalla spartizione di Yalta e questo è l’abisso politico e culturale tra noi e Vladimir Putin. Se non capiamo questo è inutile giocare a dividersi tra falchi e colombe.