Renzi non c’entra, al referendum voto sì per liberare la democrazia italiana
Istituzioni ed economia
Altro che plebiscito sul governo o sul premier Renzi, quella di ottobre sarà una scelta che avrà effetti per decenni: faremmo bene a valutarla disinteressandoci del breve periodo, del governo in carica e persino dell’Italicum, che si può sempre modificare con legge ordinaria.
Qualunque sarà l’esito del referendum confermativo del prossimo ottobre sulla riforma costituzionale, esso sancirà la fine di una lunga stagione di tentativi di modernizzazione della nostra Carta. L’avremo cambiata o non l’avremo cambiata. In caso di affermazione del Sì, l’Italia supererà definitivamente la lunga storia del bicameralismo paritario e dell’assemblearismo, nonché la breve e farraginosa stagione della legislazione concorrente tra Stato e Regioni in alcuni settori cruciali come energia, concorrenza, tutela e sicurezza del lavoro, beni culturali e turismo, infrastrutture e grandi reti.
Al contrario, in caso di bocciatura della riforma, passeranno presumibilmente molti anni prima che un nuovo processo di riforma possa vedere la luce. Ci terremo la Costituzione che c’è, immutata. Di fronte ad un bivio storico, va condotta una discussione con lo sguardo lungo, lunghissimo.
Dal 2006 al 2016: personalmente voterò sì alla riforma di Renzi come votai sì a quella di Berlusconi, quella a cui il centrosinistra di Prodi si oppose. È trascorso un decennio, ma le esigenze della riforma sono intatte: una democrazia più semplice, più snella e più veloce, dunque più “decidente”; uno Stato che si occupi di competenze proprie e Regioni affidatarie di competenze proprie; la rottura di quel tabù della “Costituzione più bella del mondo”, una vera e propria zavorra ideologica sulla democrazia italiana e sulla modernizzazione economica e sociale del Paese.
Si parla molto, direi troppo, della riforma perché ha tagliato le poltrone del Senato. Si parla forse poco di una misura cruciale: il nuovo Articolo 72 della Carta. Esso prevede per l’esecutivo la possibilità di richiedere una via preferenziale per l'approvazione di un disegno di legge "essenziale per l'attuazione del programma di governo". Viene inoltre, d'altro canto, limitato il ricorso alla decretazione d’urgenza, uno strumento straordinario di cui negli ultimi venti anni i governi di ogni colore e tipo hanno pericolosamente abusato, proprio per la necessità di una scorciatoia ai tempi potenzialmente infiniti delle approvazioni parlamentari.
La portata della modifica è notevole: il governo avrà uno strumento proprio per esercitare con efficacia il suo potere d’iniziativa legislativa, mentre il Parlamento si riapproprierà delle sue prerogative. Ciò avrà effetti positivi sulla qualità della legislazione, sulla trasparenza dell’iter legislativo e sulla “tracciabilità” delle modifiche. Il governo presenta un disegno di legge, i parlamentari lo esaminano e presentano emendamenti aventi nome e cognome, l’iter termina nei tempi stabiliti: si superano così decretoni con efficacia immediata ma poi stravolti, voti di fiducia ad ogni pie' sospinto, maxi-emendamenti partoriti di notte da chissà quale stanza ministeriale.
La trasparenza dell’iter legislativo è cruciale per una democrazia che aspiri ad un rapporto lineare e fisiologico tra i decisori pubblici, i portatori di interessi particolari (le "lobby") e l'interesse generale.
Altre modifiche, apparentemente di minore cabotaggio, risolvono storture emerse negli anni travagliati della Seconda Repubblica: si introduce lo statuto delle opposizioni, la facoltà di ricorso preventivo di legittimità costituzionale delle leggi elettorali di Camera e Senato (non avremmo avuto il Porcellum, con la nuova Costituzione: la Corte lo avrebbe con ogni probabilità bocciato prima), si sopprime l’inutile Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro.
La riforma non è perfetta, da nessun punto di vista, ma lo status quo è peggiore. Può non piacere la composizione e l’elezione del nuovo Senato, può essere discutibile che (come peraltro già accaduto nella Seconda Repubblica, in base all’attuale Costituzione) una maggioranza parlamentare possa teoricamente puntare ad eleggere da sola il Presidente della Repubblica senza accordi con le opposizioni, può non convincere la nuova disciplina dei referendum abrogativi e propositivi.
Ma le obiezioni cadono di fronte al bivio cui siamo di fronte: tenerci una Costituzione che da decenni incentiva la paralisi, la conflittualità tra livelli di governo, il ricorso spropositato alla decretazione d’urgenza, le lungaggini di due Camere doppioni, oppure rilegittimare e “liberare” la democrazia efficientando le sue procedure istituzionali. Già, rilegittimare e liberare la democrazia, oggi così in crisi e in pericolo in tutto l’Occidente preda dei populismi, dei nazionalismi e dei protezionismi.