norcia terremoto

Hanno detto “Renzi deve lasciarci votare”, “il governo abbia rispetto dei propri datori di lavoro”, “gli italiani vogliono votare”. La solita retorica populo-democraticista. La stessa solfa del diritto di voto minacciato, usurpato, o rubato da un potere occulto, che manovra nell'ombra, e che vorrebbe sottrarsi al controllo dei cittadini.

Ma l’idea di rinviare il referendum, lanciata dal deputato di Civici e Innovatori Gianfranco Librandi, rilanciata da Pierluigi Castagnetti del PD e ripresa dal ministro dell’Interno Angelino Alfano prima dello stop da parte del premier è tutt'altro che infondata e anti-democratica. Anzi è una ipotesi che prende sul serio il diritto di voto di italiani che, come tutti, vogliono votare, ma a differenza della quasi totalità dei 51 milioni di loro concittadini elettori, con ogni probabilità non potranno farlo.

Nessuno, peraltro, ha chiesto di rinviare il voto semplicemente perché c'è stato il terremoto, ma perché le conseguenze del terremoto privano di fatto molte decine di migliaia dei persone della possibilità di votare (quella che gli urlatori proclamano sacra) e impongono a amministrazioni comunali impegnate a gestire un'emergenza complessa - e tutt'altro che conclusa, visto che la terra continua a tremare - adempimenti a cui esse oggi ammettono sinceramente di non potere provvedere.

Nella sola provincia di Macerata, ci sono 35 comuni in cui gli uffici del municipio sono inagibili. Lì - e altrove, nelle altre aree del centro Italia colpite dal sisma, dove documentazione cartacea e no è sepolta sotto le macerie - chi (e dove) organizzerà i seggi, nominerà gli scrutatori, sovraintenderà al processo elettorale?

Quale è la misura oltre la quale la privazione pratica del diritto di voto diventa un "problema democratico"? A diecimila persone? A ventimila? A centomila? E quanti sono quelli che non avranno il proprio seggio o non avranno la documentazione necessaria per votare, né potranno procurarsela? Qualcuno li ha contati, prima di urlare allo scippo del diritto di voto degli italiani a cui non è crollato il tetto sulla testa? C'è poi il problema delle persone che, dopo gli eventi sismici, sono sfollate negli alberghi e nelle case della costa marchigiana e abruzzese messi a disposizione per l'emergenza: dove voteranno? Verrà loro allestito un seggio "in trasferta"? C'è tempo e modo di farlo? Qualcuno sa rispondere a queste domande? Oggi, evidentemente, no. Ma tra una settimana, qualcuno saprà rispondere?

Lo spostamento della data della consultazione, se la situazione è quella descritta da sindaci e amministratori locali disperati, sarebbe giusta e auspicabile, in una situazione di emergenza che non riguarda solo i comuni colpiti dagli eventi sismici degli ultimi mesi, ma che coinvolge tutto il Paese. Posto che - non so come, non so chi - si possa supplire alle inadempienze incolpevoli dei comuni e sostituirsi ad essi per rendere possibile un "voto regolare" anche nelle zone terremotate, davvero è sensato sovrapporre una complicata emergenza elettorale a una disastrosa calamità naturale?

Non si tratta, come direbbe qualche cretino di quelli che urlano "vogliamo votare", di risparmiare i soldi del referendum per darli ai terremotati. Né si tratta di una questione di convenienza politica, perché l'eventuale rinvio del voto non favorirebbe nessuno, meno che mai l'esecutivo che dovrebbe gestire l'emergenza e le connesse inevitabili polemiche, nonché l'inizio di un importante corpo a corpo sul bilancio con Bruxelles, a referendum ancora congelato.

È possibile una "decisione democratica", nel momento in cui pare che centomila italiani - di più, di meno? Chi li sa contare? Renzi? Alfano? Grillo? Salvini? - non sono nelle condizioni di esercitare il proprio diritto al voto e altre centinaia di migliaia sono investite indirettamente dall'onda d'urto del terremoto e non hanno né voglia né tempo di leggere e capire, di seguire o di partecipare, di fare campagna elettorale o di sentirsela fare. Questo accade peraltro proprio nella fase finale del confronto dove si convincono gli indecisi, cioè quelli che determinano la vittoria dell'uno o dell'altro fronte.

Poiché inoltre l’esito del referendum è quanto mai incerto e il clima di reciproco sospetto rimane una costante della politica italiana, un risultato strappato sul filo di lana porterebbe quasi sicuramente una parte ad accusare l’altra di brogli. Fare in modo che il referendum si svolga nella maniera più trasparente possibile dovrebbe essere nell’interesse sia degli onesti sostenitori del Sì, che degli onesti sostenitori del No.

Poi, magari, tra qualche giorno si scoprirà che era tutto un equivoco. Che tutti gli elettori, anche nelle zone terremotate, avranno il proprio seggio a qualche centinaia di metri dal proprio letto e tutti i documenti in regola per votare. E che magari, tra dieci o venti giorni, Grillo e Salvini andranno ad arringare le folle nelle tendopoli, inneggiando alle virtù del bicameralismo paritario e ne usciranno miracolosamente vivi. Ma se non sarà così, bisognerebbe porsi questa domanda.

Se un ex Presidente della Corte come Onida è andato dal giudice civile per chiedere l'annullamento del decreto di indizione del referendum - cioè di fatto per chiedere il rinvio del voto - giudicando il "quesito eterogeneo" una violazione della propria libertà politica, perché un qualunque terremotato non dovrebbe cercare e magari trovare un giudice che dica allo Stato italiano di rinviare il voto fino al giorno in cui anche lui potrà, semplicemente, votare?

@querlu