Renzi PD
Sono passati ormai due anni da quando Matteo Renzi, da segretario del PD, ha sfiduciato Enrico Letta e assunto direttamente la guida di un governo sostenuto da una coalizione sbilenca. Da una coalizione, o meglio “dalle coalizioni”, perché il capolavoro di Renzi è stato quello di dettare una propria agenda tra maggioranze parlamentari variabili e asimmetriche, navigando in mezzo all’instabilità parlamentare e politica.

Le riforme costituzionali e l’Italicum scaturiscono dal famigerato “patto del Nazareno”, ma sono poi state votate dal suo “residuato”: il grosso del PD (ma non tutto e comunque privo di chi nel frattempo l'aveva abbandonato), insieme ai centristi vari. E al referendum costituzionale, la vittoria dei Sì avrà tante più chance quanto più non sarà percepita dagli elettori come la “riforma del PD”.

Le unioni civili per le coppie omosessuali avranno con poche eccezioni il voto determinante dei senatori del M5S, oltre a quello di SEL (che, ricordiamo, alla Camera ha goduto del premio di maggioranza del Porcellum insieme ai democratici). La riforma del contratto di lavoro a tempo indeterminato, il famoso Jobs Act, è stata approvata nonostante la contrarietà di una parte importante del Partito Democratico e della CGIL. Il ddl Concorrenza, ancora in discussione, è stato semplicemente massacrato prima in sede governativa, con Alfano e la Lorenzin ad alzar barricate contro la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, e poi da tutte le forze parlamentari, con buona pace degli obiettivi di competitività dell’economia italiana. Di più, una parte del PD ha lavorato insieme ai grillini per reintrodurre la chiusura forzata dei negozi per un numero minimi di giorni all’anno.

La lista è lunga e il dato di fondo è sostanziale: Renzi ha governato e sta governando nonostante la maggioranza che gli vota la fiducia e, soprattutto, nonostante il Partito Democratico. Nessuna delle riforme varata in questa legislatura sarebbe stata approvata da un governo monocolore PD. Non è un fatto puramente aritmetico, è un dato politico di cui è bene tener conto per il prosieguo di questa legislatura e con ogni probabilità per la prossima, nonostante il modello "monocolore" sia in teoria quello imposto dall'Italicum. L’insufficienza politica del PD per un’azione riformatrice è evidente, ne è consapevole anche il presidente del Consiglio, che è altrettanto conscio che in giro per l’Italia il suo partito assomiglia più a Michele Emiliano e a Francesca Balzani che a Beppe Sala: un partito "di sinistra” che ormai ha paura di non esserlo abbastanza.

Nei prossimi mesi, emergerà con sempre maggiore forza la necessità di compiere scelte di politica economica e fiscale coraggiose: l’Italia è ancora un paese a rischio, perché il suo enorme debito pubblico la rende fragile e dipendente dalle condizioni finanziarie internazionali. Basta uno sfarfallìo di spread e ci giochiamo miliardi di euro di maggiore spesa per interessi. Il sistema bancario suscita preoccupazioni fortissime.

Dopo due leggi di Stabilità espansive, la seconda delle quali finanziata sostanzialmente a deficit, il governo italiano è oggi di fronte ad un bivio fondamentale: per evitare una stretta fiscale a danno dei contribuenti (anzi, semmai per provare ad alleggerire ulteriormente il carico fiscale), vanno adottati nuovi provvedimenti di taglio della spesa pubblica e di riduzione del debito. Più saremo credibili e percepiti come stabili, più aiuteremo la Banca Centrale Europea ad aiutarci. Non vale il contrario, non può valere.

I veri avversari politici del Partito Democratico non sono né il centrodestra di Salvini e Berlusconi, né il Movimento Cinque Stelle, impegnati entrambi a rendere le proprie offerte politiche sempre meno credibili e conciliabili con la realtà. Il vero problema del Partito Democratico è se stesso, e l'idiosincrasia a superare il suo orizzonte "di sinistra", nonostante le premesse e la sfida renziana.

Quel che resta della maggioranza parlamentare oltre il PD è un ammasso di residuati bellici, da Alfano a Casini, passando per i cocci di Scelta Civica e le "scorie radioattive" di Verdini: non è certo da queste premesse e dalla somma di queste debolezze che può nascere una forza politica capace di competere al rialzo con il PD sul piano della libertà economica, del rigore finanziario e dell’innovazione sociale.

Eppure, sapete come in fondo la pensiamo noi di Strade: senza competizione, non c'è efficienza. È una regola che vale in qualunque mercato, a partire da quello politico.

@piercamillo