Le Pen vince in Francia, ma trionfa in Italia. Nel popolo e in tv
Istituzioni ed economia
Alla fine, i voti raccolti ieri dal Front National nelle elezioni regionali francesi hanno raggiunto la percentuale nazionale del 27,9%. È la stessa percentuale di cui uno dei sondaggi più recenti accredita in Italia il M5S, che, stando allo stesso sondaggio, sarebbe eccezionalmente competitivo e vincente anche nel voto di ballottaggio contro il PD.
Il M5S, peraltro, è solo una delle sezioni italiane di quella sorta di Cominform anti Ue e anti euro che unisce i partiti fratelli nella lotta contro Bruxelles (e Berlino). Ve ne sono ufficialmente almeno altri due - quelli di Salvini e Meloni - che, sempre secondo il sondaggio di cui sopra, raccoglierebbero insieme il 20,7% dei voti.
Nella sostanza, se ieri in Francia ha votato per le Le Pen poco più di un francese su quattro, in Italia voterebbe per partiti lepenisti quasi un italiano su due. In questa ipotesi, peraltro, si tengono benevolmente fuori dal totale i voti di Forza Italia, in virtù dell'appartenenza formale del partito berlusconiano al PPE. Tuttavia, nei toni, nei modi e sopratutto negli argomenti, l'euro-scetticismo di FI è assai più vicino a quello francese delle Le Pen che a quello inglese di Cameron.
Se il sistema elettorale e istituzionale francese e un blocco di consenso trasversale pregiudizialmente anti-Front National sembrano ancora in grado di marginalizzare il consenso lepenista, in Italia la volubilità dell'elettorato - sempre stando ai sondaggi e ad alcuni primi esperimenti locali - pare trovare assai meno freni e inibizioni. Attenzione, quindi, a considerare la Francia e non l'Italia il ventre molle del populismo eurosfascista. Ancora una volta, è l'Italia a essere il paese politicamente più a rischio, tra i grandi della costruzione europea. Se ne trae conferma tastando non solo gli umori del popolo, ma anche i sentimenti delle élite.
Non soltanto negli istinti dell'elettorato di confine, ma anche nei ragionamenti di molti analisti e commentatori nominalmente non schierati, emerge infatti una certa inclinazione a giustificare, se non le ricette politico-economiche, almeno l'utilità "storica" del voto lepenista per suonare la sveglia ad un'Europa insensibile alla paura e al dolore dei cittadini europei e incapace di rimediare ai propri fallimenti. A dirigere comportamenti e analisi di voto sembra essere lo stesso bias cognitivo per cui si addebita all'Europa e ai suoi processi di integrazione, oltre che ai "burocrati" che li hanno voluti e guidati, la responsabilità della debolezza europea e della progressiva "periferizzazione" politico-economica del vecchio continente rispetto al centro dei nuovi equilibri globali.
Sostenere che la risposta populista e nazionalista sia sbagliata (e rovinosa negli effetti) proprio perché fondata su un'analisi sbagliata e insopportabilmente auto-indulgente delle ragioni della crisi europea è ormai diventato complicato sulle pagine della stampa perbene e praticamente impossibile nei talk show della politica in tv. Suona troppo retrò, conformista e europeisticamente corretto, in questo circolo vizioso che spinge l'informazione e la "scienza" a inseguire gli incubi che agitano i sonni del popolo e il popolo a trarre così conferma giornalistica e "scientifica" della loro realtà.
La natura ideologicamente anfibia della seduzione lepenista - quel promettere ai ricchi un riparo dalle pretese dei pezzenti, ai poveri una protezione dalle angherie dei potenti e a tutti un rifugio dal disordine del mondo e il ritorno all'antica potenza - è molto meno nuova e post-novecentesca di quanto voglia apparire e sia riconosciuta. L'Italia ha conosciuto un fenomeno analogo all'inizio dello scorso secolo - si chiamava Fascismo - e ibridava motivi di destra e di sinistra in una originale costruzione nazionalista.
Il nuovo nazionalismo europeo fa qualcosa di simile - e di altrettanto pericoloso - in uno scenario in cui però qualunque rischio non può più trovare governo o rimedio nazionale e dunque la risposta nazionalista non può lenire, ma solo acuire i sentimenti di frustrazione e di ostilità dei popoli europei. Ma che il populismo vincente, oltre che alla guerra a Bruxelles, rischi di portare rapidamente anche alla guerra - inizialmente fredda, ma rapidamente riscaldabile - tra le capitali dell'Europa rinazionalizzata è un'altra delle cose che in Italia non si possono quasi più dire, in pubblico o in politica, se non si vuole apparire euro-cretini o euro-esagitati.