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Dietro il fumo delle retoriche sovraniste e democraticiste e del birignao cosiddetto istituzionale, si andrà al voto anticipato per autorizzare Di Maio e Salvini a fare dopo il voto il governo che avrebbe potuto e in fondo voluto fare anche prima, ma con un sovrappiù di legittimazione elettorale e di “necessità storica”. Con tutto il rispetto per la carica e la funzione, in questo tornante complicato della storia repubblicana, forse l’inappuntabile Mattarella avrebbe dovuto fare qualcosa di diverso che il notaio o il portinaio dell’Italia di Weimar.

Dal cilindro del Quirinale uscirà un governo neutrale senza fiducia e senza politica che porterà l’Italia al voto – o secondo gli auspici dello stesso Presidente – offrirà una estrema finestra di tempo alla coppia perfetta dell’Italia populista per celebrare entro la legislatura lo sposalizio anelato, dopo tanto corteggiamento e lungo fidanzamento. È quindi uscita una “cosa” (un governo non eletto dal popolo, un nuovo governo Monti, un governo del tradimento alla sovranità popolare, un governo delle banche e di Bruxelles…) che gonfierà le vele del voto leghista e grillino, isolerà ulteriormente il PD a sostegno di un esecutivo minoritario e neppure offrirà a FI la chance di rompere con Fedez-Salvini e consegnarlo finalmente tra le braccia di Ferragni-Di Maio, per il matrimonio del secolo, nel tripudio del cretinismo e del merchandising politico digitale della Casaleggio srl.

Che poteva fare di diverso Mattarella? Poteva fare insieme di meno e di più. Poteva non offrire ulteriore tempo e giustificazione all’irresolutezza dei due vincitori e chiamare la fine della legislatura, senza nuovi e diversamente sfiduciati governi, con una data di voto democraticamente ammissibile (settembre o ottobre, non luglio o agosto), ribaltando in maniera esplicita su Salvini e Di Maio il prezzo del tradimento di un voto addirittura abbagliante nel suo significato politico. Poteva non coprire l’irresponsabilità di due partiti che rifiutavano l’esito che il voto del 4 marzo rendeva necessario, cioè il governo populista, con considerazioni di mera aritmetica parlamentare (come ha fatto enumerando ieri nel suo intervento tutte le possibili combinazioni che la scarsità dei numeri o l’indisponibilità dei partiti rendevano impossibili).

Poteva chiarire, ben prima del sessantesimo giorno dopo il voto, con un messaggio alle Camere, cioè con un atto grave e non informale, che non c’è ortopedia elettorale e istituzionale possibile per un sistema in cui i partiti che vincono non accettano di condividere il prezzo e la responsabilità della vittoria, ma passano il tempo a contendersene la titolarità e il privilegio. Poteva esplicitamente obiettare contro l’uso delle elezioni e del voto popolare non come strumento di legittimazione del governo, ma come forma di ribellione contro il governo e i vincoli del “governare”.

Poteva infine – essendo il Capo dello stato imparziale, ma non estraneo alle dinamiche di governo e alle sue regole costituzionali – chiarire che un governo del nothing’s impossible (programmaticamente in deroga rispetto alle regole di finanza pubblica a cui il nostro Paese è oggi costituzionalmente e politicamente tenuto, per scelta democratica, non per imposizione autoritaria) avrebbe trovato e troverà sempre e comunque in futuro sul Colle più alto di Roma un punto di opposizione, non di collaborazione e neppure di “comprensione”.

Il Colle ha scelto un’altra strada, meno intransigente e più conciliante, meno interventista e più manovriera, più democristiana e meno napolitaniana. Si sarà fatto i suoi conti, ma temo che – rispetto ai suoi stessi fini, che non sono sospettabili di complicità con i possibili esiti post-weimariani della politica italiana – potrebbero rivelarsi sbagliati.

@carmelopalma