I risultati delle elezioni regionali 2015 sono un tornante tortuoso del percorso politico di Renzi e potrebbero segnare la fine della sua leadership "onnicomprensiva" sulla sinistra italiana.

Non così può dirsi della leadership renziana in sé (cioè a prescindere dal PD e dai suoi tormenti), che rimane quella più competitiva, oltre che più sicura per un Paese sorvegliato speciale, e la meno refrattaria, tra quelle su piazza, all'idea che prender voti sia solo una parte - quella, diciamo così, strumentale, anche se massimamente creativa - del mestiere della politica.

renzi

Uno scontro Renzi/Salvini/Grillo non sarebbe finito come quello tra Paita, Toti e Salvatore. Nondimeno Renzi, che uscì trionfatore dalle europee, è il leader nazionale che viene fuori più malconcio dal voto di ieri. Assai più di Berlusconi, che raschia il fondo del barile di un consenso al minimo storico e patisce il sorpasso della Lega, ma con Toti strappa un successo balsamico.

Per il resto, sia Grillo, sia Salvini, dopo avere imposto l'agenda della discussione pre-elettorale, impresentabilità compresa, hanno consolidato uno spazio anti-politico apparentemente inaggredibile e inestinguibile, in questo caso ulteriormente ingigantito dall'astensionismo diffuso.

Volendo riassumere il voto di ieri, sembrano emergere quattro punti abbastanza chiari e sufficientemente definitivi circa le tendenze a medio-termine della politica italiana.

Il primo è che il "calabrone" Renzi non può continuare a volare, come leader di sinistra, a dispetto della "forza di gravità" della sinistra. È vero che, guardando al voto di ieri, neppure in Liguria emerge una gauche anti-renziana in grado di vincere qualcosa o di presentarsi come una alternativa competitiva a quella del premier.

Però c'è una sinistra che disertando le urne (come chiesto dalla CGIL) o rinchiudendosi in un ridotto neo-bertinottiano (come ha fatto con Cofferati e Pastorino) riporta le percentuali del PD a numeri ben distanti dal 40% delle europee e gli infligge sconfitte cocenti. In questa logica, la scelta "monopartitica" dell'Italicum, su cui Renzi affida le speranze di riconferma a Palazzo Chigi, più che una scommessa inizia ad apparire un azzardo. In quello schema Renzi rischia di perdere i voti della sinistra anti-renziana, ma pure quelli della non-sinistra potenzialmente renziana (se non altro per mancanza di alternative), riluttante a imbarcarsi nel suo Partito della nazione.

Il secondo dato su cui riflettere è che il centro-destra brutto sporco e cattivo di Berlusconi e Salvini è l'unico centro-destra che c'è. Il nuovo centro-destra andrebbe costruito contro di loro, prima che contro Renzi, e siamo ben lontani dall'intravederne anche solo le fondamenta. I risultati di Tosi e Fitto sono importanti, ma regionali; quello del NCD è politicamente parlando un non risultato, al di là dell'esiguità del consenso raccolto.

Chiaramente un centro-destra più che dimezzato, in termini assoluti, rispetto a quello che doveva fare la "rivoluzione liberale" e veniva votato da un elettore su due, lascia potenzialmente ampio spazio anche ad alternative interne, che non hanno però interlocutori, protagonisti e nemmeno parole d'ordine originali da cui un elettorato disgustato e renitente possa oggi sentirsi convocato. Peraltro, se anche ciò accadesse (chissà quando), si aprirebbe comunque anche a destra, come a sinistra, la questione dell'unità impossibile. Cofferati non può stare con Renzi. Ma nessun liberal-conservatore "normale" potrebbe mai stare con (anzi sotto) Salvini.

Il terzo dato riguarda il premier come leader del PD. Renzi perde dove perde e vince dove vince praticamente senza toccare palla. In Liguria non è riuscito a impedire che il discredito e il sospetto per un'amministrazione chiacchierata e una successione para-dinastica franassero addosso al PD con una sconfitta fino a pochi mesi fa inconcepibile.

Però anche dove ha vinto - si pensi a De Luca, Rossi o Emiliano - non ha vinto con uomini "suoi", ma con candidati (lontani anni luce, anche esteticamente, dal new deal renziano) che ha ereditato e di fatto subìto, e a cui deve i risultati che lo tengono a galla. Il renzismo si è fermato al Nazareno: la mappa del sistema di potere locale del PD, tra regioni e comuni, rimane da paleolitico diessino. La corrente di minoranza organizzata non è la sola e neppure la più importante "questione di partito" che il leader del PD deve affrontare.

Il quarto dato riguarda il M5S, che esce da questo voto confermandosi secondo partito, ma terza forza, scavalcato dalla coalizione di centro-destra, che con l'Italicum per arrivare al ballottaggio dovrebbe impacchettarsi - cosa peraltro non semplice - in un'unica confezione. La resistenza elettorale del M5S e il suo consolidamento nel voto amministrativo sono la prova che la rinuncia al governo e a qualunque dialogo "compromettente" con gli altri non è deludente, ma galvanizzante, per un elettorato che all'offerta grillina chiede di esprimere la propria indignazione e confermare la propria estraneità alla politica "di Palazzo".

Rimane però il fatto che nella logica bipolare e maggioritaria, perfezionata dall'Italicum sul piano nazionale, gli spazi di manovra per il M5S sono ora decisamente ridotti. I voti non solo si contano, ma si pesano, e quelli di Salvini, che sono di meno, prevalgono su quelli di Grillo, che sono di più.

Il 5 a 2, dopo le mani avanti messe dal premier sul 4 a 3, non può considerarsi un risultato inaspettato. Se anche lo si volesse considerare una sorpresa, rimane il fatto che dal voto di ieri non emerge comunque alcuna significativa novità. Berlusconi è un po' più vivo di quanto si pensava, Renzi un po' più in difficoltà di quanto volesse far credere. Ma l'Italia è ferma a quel tripolarismo anomalo che esplose nelle urne nel 2013 e - Renzi o non Renzi - non sembra destinata a trovare a breve assetti diversi.