Sprechi, diritti acquisiti e servizi essenziali. Tre equivoci frenano il taglio della spesa
Istituzioni ed economia
La marcia di avvicinamento al DEF vede il ritorno dei tagli della spesa pubblica come tema centrale della discussione politica.
L'esecutivo, nel tentativo di impedire l'aumento automatico dell'Iva in caso di mancato raggiungimento dei saldi di bilancio previsti per il 2016, annuncia nuove "razionalizzazioni", riaprendo con i nuovi plenipotenziari Gutgeld e Perotti il dossier della spending review, che Renzi aveva ereditato dall'impolitico Cottarelli e scelto prima di congelare (e anche, in fondo, di occultare) e poi di politicizzare, affidandolo a esperti più consonanti con la politica economica (e gli obiettivi di consenso) dell'esecutivo.
Tutto legittimo, anzi da un certo di vista sacrosanto, perché sui temi del bilancio pubblico non ci può essere una divisione del lavoro tra tecnici e politici, che affidi la responsabilità dei mezzi ai primi e ai secondi quella dei fini, agli uni il compito di bastonare chi deve pagare e agli altri quello di beneficiare chi deve incassare il dividendo dei "tagli". Il divorzio consensuale da Cottarelli è stato un ritorno alla normalità e alle regole base della responsabilità politica.
Purtroppo, se istituzionalmente le cose sono tornate normali, la discussione sui tagli rimane politicamente anomala e viziata da tutte le parti (che non sono solo due, i "taglianti" e i "tagliati", ma molteplici e trasversali) da un eccesso di retorica propagandistica.
I dissidi che si consumano a valle dipendono dagli equivoci che non si risolvono (e anzi si moltiplicano) a monte. Ci permettiamo di segnalarne tre, che ci paiono quelli fondamentali.
Il primo è legato all'idea che i tagli della spesa siano legittimi e dovuti quando tagliano "gli sprechi" e non quando riducono "i servizi". Da un certo punto di vista sembra che il bilancio pubblico italiano debba i propri problemi esclusivamente - o in massima misura - alla negligenza di amministratori impreparati e pasticcioni, che disperdono in modo del tutto irrazionale i quattrini nel dedalo dei capitoli del bilancio pubblico, o alla destrezza dei "ladri" annidati a tutti i livelli, dai più alti ai più bassi, dell'amministrazione e dediti alla razzia del pubblico denaro per finalità meramente private.
Invece, evidentemente, non è così. Gli sprechi e le inefficienze, che pure esistono, sono tali rispetto a benchmark quali-quantitativi che non sono affatto oggettivi e dati una volta per tutte, ma che vengono scelti di volta in volta, secondo un'idea del tutto particolare e discutibile dell'interesse cosiddetto generale. Gli spechi - anche quelli più suicidi dal punto di vista economico-finanziario - sono sempre politicamente razionali, perché legano l'allocazione delle risorse pubbliche a un equilibrio di potere politicamente vincente. Le inefficienze sono per definizione un "fatto democratico". La spesa pubblica è nella sua struttura e nella sua misura la copia fedele del patto sociale e politico che l'Italia e gli italiani hanno liberamente scelto e che adesso mostra la corda, ma da cui non possiamo liberarci così facilmente, perché farlo comporterebbe un "fuoriuscire da se stessi", che culturalmente è per qualunque gruppo - e figurarsi per un popolo - un esercizio molto difficile, se non dopo una definitiva rovina.
Il secondo equivoco riguarda i cosiddetti "diritti acquisiti" rispetto all'accesso a determinate prestazioni sociali. Ad esempio, è noto che il governo ha scelto di non riaprire la questione previdenziale, secondo quello che prima Cottarelli e poi Boeri avevano ipotizzato, cioè un parziale ricalcolo contributivo di pensioni retributive più ricche, in cui il sussidio fiscale implicito non è neppure lontanamente giustificabile in base a finalità propriamente sociali. Eppure è logicamente del tutto scontato che la permanenza di un sussidio fiscale comporta decisioni che vanno di anno in anno rinnovate e che possono mutare sulla base di considerazioni più complessive. Se è possibile di anno in anno mettere mano al sistema delle detrazioni fiscali, ad esempio, o ad altre forme di incentivo, perché sulle pensioni questa logica non dovrebbe valere? Perché in questo caso a considerarsi "acquisito", cioè intoccabile, non è un accordo contrattuale stipulato tra due parti (il pensionato e lo Stato), ma uno specifico vincolo politico della politica fiscale, che riguarda sessanta milioni di contribuenti, neonati compresi.
Il terzo equivoco riguarda i cosiddetti "servizi essenziali". Il Presidente dell'Anci Fassino ha affermato che le ipotesi dell'esecutivo oggi mettono a rischio gli asili nido, l' assistenza domiciliare per anziani e disabili e le politiche di contrasto alla povertà e dunque sono, per ciò stesso, inammissibili. Si tratta effettivamente di servizi che in Italia, rispetto ad altri paesi europei, risultano molto sottofinanziati, ma la ragione non sta nei tagli che si sono nel frattempo succeduti, bensì nel fatto che l'unica spesa sociale "non negoziabile" in Italia è stata storicamente quella previdenziale, a danno di tutte le altre. Inoltre, non è affatto detto che per garantire determinati diritti non esista alternativa al modello di servizio che gli enti locali e le regioni utilizzano. Ad esempio (ma è davvero un esempio tra tanti) siamo sicuri che per l'assistenza ai malati non autosufficienti non vada scelta la strada della disintermediazione e delle erogazioni monetarie alle famiglie dei malati, piuttosto che la garanzia di un diritto (al posto letto, o all'assistenza domiciliare pubblica...) a cui non sempre corrisponde la disponibilità di un servizio?
Evidentemente una discussione su questi equivoci è politicamente più difficile e pericolosa della consueta tenzone tra parti che si rinfacciano slealtà, errori e mala fede, ma promettono entrambe una politica di tagli capace di dare tutto a tutti, senza togliere niente a nessuno.