Da qualche tempo le grandi multinazionali dell'economia digitale sono entrate nel mirino del fisco italiano. Il motivo è che l'ammontare delle imposte versate all'erario viene giudicato “non adeguato” rispetto ai ricavi che conseguono. Google, Facebook e Amazon sono i tre nomi più noti.

L'idea di una web Tax non è nuova. Già negli anni scorsi sono state avanzate diverse ipotesi di norme ad hoc per tassare di più le attività di queste aziende.

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In questi giorni un membro del Governo italiano (il sottosegretario all'Economia Enrico Zanetti) ha proposto una nuova ipotesi di tassazione per i giganti del digitale: una ritenuta alla fonte del 25 per cento su tutti i pagamenti a favore delle imprese multinazionali che hanno sede all'estero. Pare vi sia già una proposta normativa scritta in tal senso e che verrà presentata nei prossimi giorni. L'ipotesi è concreta. La norma potrebbe trovare posto nei decreti attuativi del disegno di legge delega sulla riforma fiscale. La ritenuta, che avrebbe l'obiettivo di prevenire l'elusione fiscale da parte di questi soggetti presenti in più stati, verrebbe operata dalle banche e dagli intermediari attraverso i quali transita il danaro dei pagamenti.

L'obiettivo dichiarato è il solito e nobilissimo: con il maggior gettito si potrà ridurre la pressione fiscale su tutti gli altri contribuenti. È un mantra che sentiamo da almeno trent'anni. Peccato, però, che fino a oggi le maggiori imposte hanno sempre e solo ingrassato la spesa pubblica. Tuttavia, come si sa, è facilissimo trovare consenso proponendo nuove imposte. Basta fare leva sul concetto di equità fiscale. Un concetto quanto mai evanescente, e spesso malinteso. Ma che evoca immediatamente l'immagine del gigante digitale con sede all'estero che elude il fisco italiano e froda gli onesti cittadini e contribuenti che lavorano e producono in Italia. Il resto viene da sé.

Dinanzi a questa immagine, poco importa se in realtà l'atteggiamento del fisco nei confronti di Google o di Apple conferma e consolida l'assunto che la concorrenza fiscale tra gli stati è solo un male. Che il livello di tassazione deve essere lo stesso in tutti i paesi e che nessuna forma di arbitraggio fiscale deve essere ammessa. In realtà, un ragionevole grado di concorrenza fiscale tra gli stati è un bene. E se essa venisse un giorno completamente bandita ed eliminata, il mondo sarebbe sicuramente peggiore per i cittadini e le imprese degli stati più inefficienti e spendaccioni.  

Ma di fronte alla retorica del giustizialismo fiscale questo messaggio non passa. Per il fisco, l'impresa, le attività produttive e creatrici di valore, hanno senso ormai solo come sorgenti di gettito per l'erario. E solo in termini di gettito, lo stato sembra misurarne il valore e il contributo all'economia e allo sviluppo del paese. Nella retorica terribile del giustizialismo fiscale, il fine ultimo dell'impresa e di chi produce è trasferire il “giusto ammontare” di risorse allo stato. Spetta a quest'ultimo il compito di impiegarle nel modo più saggio. Poco importa che il concetto di “giusto ammontare” è praticamente inconcepibile. La filosofia di fondo che ispira l'azione delle amministrazioni fiscali è questa. Non solo in Italia. È una filosofia buona, forse, per tappare i buchi di bilancio nel breve termine. Ma non certo per tornare alla crescita e allo sviluppo in Italia e in Europa.

Queste considerazioni di carattere generale lasciano spazio anche a dubbi più specifici in merito al provvedimento. Dubbi che solo il testo definitivo dello stesso, che verrà presentato a giorni, potrà eventualmente fugare.

Prima di tutto si da per scontato che l'introduzione del nuovo regime di tassazione in Italia non produrrà nessun cambiamento se non, ovviamente, il maggiore gettito. Ma l'aggravio fiscale per le multinazionali è notevole, e mi rimane difficile credere che non vi saranno contraccolpi. Molti sicuramente ricordano quello che è avvenuto in Spagna e in Belgio, dove i rispettivi governi, per andare incontro alle richieste degli editori, hanno imposto a Google il pagamento dei diritti sui contenuti del servizio Google News. Gli editori si sono resi conto di essersi data la zappa sui piedi. Dopo la sospensione del servizio da parte di Google, il traffico sui siti internet nazionali era letteralmente crollato. E alla fine sono stati gli stessi editori a chiedere una marcia indietro al governo sul provvedimento. Cosa succederebbe se Google in Italia sospendesse una parte dei servizi oggi gratuiti, ne limitasse la gratuità o li convertisse in servizi premium?

In secondo luogo, non si deve trascurare che, sia in sede europea che in sede OCSE, si sta già lavorando al tema dell'abuso di diritto e dell'elusione fiscale nei casi di pianificazione fiscale aggressiva, con lo scopo di arrivare a un assetto normativo internazionale il più possibile coordinato e omogeneo. Perché, chiaramente, una questione di questo tipo può essere affrontata in modo efficace sono attraverso un coordinamento della normativa tra gli stati. Fughe in avanti possono risultare controproducenti sia sulla credibilità degli accordi in fieri sia sulla credibilità e la certezza dell'ordinamento fiscale nello stato che le fa. Una simile iniziativa renderebbe la normativa fiscale nazionale ancora più incerta ed evanescente. E i danni si rifletterebbero, ovviamente, sugli investimenti esteri in Italia.

In sintesi, per un Paese adottare un provvedimento uti singulus potrebbe rivelarsi un dannoso boomerang. Forse è meglio evitare di fare i primi della classe e aspettare di coordinarsi con la normativa europea e internazionale.

@amedpan

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