Il voto di ieri alla Camera sulla riforma costituzionale ha congelato e rimandato a dopo le elezioni regionali il redde rationem nel PD – Bersani ha votato sì per disciplina di partito, facendo sapere che "se non si cambia, è l'ultima volta" – ma ha definitivamente scongelato il tutti contro tutti dentro quel che rimaneva del partito berlusconiano.

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L'immagine di una giornata a metà tra l'assurdo di Ionesco e il nonsense doroteo è arrivata con la lettera sottoscritta da una fauna mista di falchi e colombe del partito del Cav. che hanno esibito un voto conforme, ma un parere difforme al no annunciato dal capogruppo Brunetta. Una professione di obbedienza e un esercizio di disobbedienza, un po' curiali e un po' intimidatori, legittimati dall'aperta ribellione di Verdini, uguale ma contraria a quella di Fitto, che portando Berlusconi sulle sue posizioni e vedendosele di fatto usurpare, ha autorizzato la dissidenza "nazarena" a presidiare la trincea dell'accordo-a-tutti-i-costi, precipitosamente abbandonata da Cav.... Insomma, quando la geografia interna dei partiti cessa di essere euclidea, per diventare lisergica.

Tutto questo, per fatale coincidenza, avveniva mentre Berlusconi era in attesa del responso della Cassazione sul processo Ruby, per scoprirsi infine assolto dai giudici, ma spacciato dai numeri, che certificavano la fine dell'ultimo simulacro di unità del partito che era suo e ora non è più di nessuno, ma del primo se lo prende. E in pole position, come è noto, c'è un comunista padano con la felpa e l'orecchino, un po' neo-fascista come i camerati di Casa Pound, che lo eleggono a beniamino, e un po' vetero-sovietico, come l'ex ufficiale del KGB che da Mosca tira le fila e riempie i salvadanai del nazionalismo anti-europeo.

Dal punto di vista istituzionale il voto di ieri è solo il primo dei quattro necessari per portare a casa (e al referendum) la riforma intitolata alla Ministra Boschi. Ma è stato per altri versi un voto definitivo, ufficializzando un ordine politico ancora formalmente multipartitico, ma sostanzialmente monocentrico, dove tutto ciò che c'è, e perfino quello che non c'è, si definisce in rapporto, per contiguità, differenza o opposizione, al disegno renziano e alle sue traiettorie irregolari, che cambiano tutto, ma spaccano tutto, compreso il PD. In tutto questo, a finire irrimediabilmente rottamato dal voto di ieri non è stato il Senato, o il CNEL, ma l'opposizione di sistema, finita in parte in pasto al partito anti-sistema di Salvini, e in parte a bordo della carovana del premier.

L'opportunità, per Renzi, è che un Parlamento sbandato – rappresentativo in grande misura di sconfitte passate o di velleità future – sia più disponibile a fiancheggiare che ad avversare il suo estro riformatore e il suo arrembaggio al "nuovo". Il rischio, per tutti, è che un Parlamento che rappresenta sempre meno del consenso e del dissenso reale del Paese alla fine si riveli, democraticamente parlando, qualcosa di non molto diverso da un sindacato giallo del governo e della sua retorica.