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I veri partigiani sono quasi tutti passati a miglior vita, ma la retorica sulla vera Resistenza e sui doveri dei suoi intransigenti custodi (figli e nipoti ideologici di un'Italia da Guerra Fredda) continua a intossicare il dibattito pubblico e l'anima profonda della sinistra in modo sempre più anacronistico e grottesco.

Il mito della "Resistenza tradita", nelle sue diverse declinazioni, è stata una sorta di testimone che nel corso di sessant'anni di storia si sono passati di mano partiti istituzionali, gruppi eversivi e autoproclamate maggioranze morali: dal PCI, alle Brigate Rosse, fino al comitato "Salviamo la Costituzione", che nel 2006, con la guida del Presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, portò alla vittoria il fronte del No nel referendum confermativo sulla riforma approvata dal centro-destra.

Il passaggio dal feticismo resistenziale a quello costituzionale è stato culturalmente coltivato nell'Italia in cui il fattore K impediva alla sinistra comunista l'accesso al governo e in cui quindi, per il PCI, il principio di garanzia democratica fissato nella Carta non poteva consistere in un efficiente bilanciamento, ma in un preventivo svuotamento del potere esecutivo.

Questa metaforica staffetta partigiana è giunta fino a oggi non per caso, ma perché ha costituito oggettivamente un pegno ideologico insuperabile. Al punto che anche i sostenitori "di sinistra" della riforma Renzi ne sono stati, volenti o nolenti, partecipi e subordinati e hanno dovuto rendere ad esso, almeno fino ad oggi, una non negoziabile obbedienza.

Ora questa "non negoziabilità" è stata infranta - per la stessa ragione anagrafica per cui l'Anpi è diventata un'organizzazione di utilizzatori, non di protagonisti della guerra di Resistenza - ma il peso del tabù è rimasto rilevante. Quindi Renzi e Boschi possono difendere, anche a sinistra, la riforma con ragioni brutalmente efficientiste e "governiste", ma devono pescare nell'album di famiglia della sinistra qualche figurina (Berlinguer, un capo partigiano, un vecchio compagno...) che giustifichi la loro conversione.

Come votino gli ultimi partigiani ancora in vita al referendum di ottobre è del tutto irrilevante, non solo per ragioni numeriche, ma anche politiche, visto che voteranno esattamente come il resto degli italiani, dividendosi tra il Sì e il No in base a ragioni che non hanno nulla a che fare con la Resistenza, ma con valutazioni o pregiudizi di merito, sulla riforma o sul governo Renzi. E il loro voto (nonché quello dei loro rappresentanti ufficiali) conterà assai meno di quello delle nuove maggioranze silenziose, incazzate e antipolitiche, che il premier tenta di persuadere con argomenti-esca (il taglio delle poltrone e degli emolumenti) molto allineati allo spirito dei tempi.

@carmelopalma