Ovadia corridoio

A ben guardare la recente cronaca politica, emerge una questione strutturale che mi pare non sia stata ancora adeguatamente affrontata: gli italiani hanno un serio problema col capitalismo. Non con l’umanesimo laico delle società liberali, non con la democrazia, proprio col capitalismo. Trattasi di fenomeno storico, sociale ed economico estremamente complesso e di difficile inquadramento, in continuo mutamento e messo a dura prova oggi dalle nuove evoluzioni tecnologiche e di costume e dalle relative sfide etiche e ambientali. Operando tuttavia una significativa semplificazione, ipotizziamo sia l’unico sistema economico oggi possibile e proviamo a elencarne alcuni elementi chiave nelle accezioni classiche del concetto, e a interpretarne sinteticamente lo stato applicativo nel nostro Paese.

La mano invisibile. Il libero mercato, seppur con l’aiutino dei regolatori nazionali, è il regolatore migliore possibile della legge della domanda e offerta e, in ultima istanza, tende a migliorare le condizioni dei cittadini/consumatori spingendo all’efficienza degli operatori economici e dunque all’offerta di migliori prodotti/servizi e a prezzi più contenuti.

In Italia: la maggioranza del Paese, da semplice lettura dei risultati elettorali, risulta a favore di misure assistenzialistiche e quantomeno non in linea con le logiche di mercato (qualsiasi elenco sarebbe riduttivo). Inoltre prevale un sentimento collettivo che gli operatori economici debbano essere accompagnati se non guidati nel loro operato dallo Stato, vedi anche solo i nostri istituti di protezione del posto di lavoro unici al mondo (es. compensazioni da licenziamento da record mondiale, cassa integrazione) e casi di cronaca economica (es. Whirlpool, Alitalia, ILVA).

Il successo individuale come motore del sistema. L’imprenditore, assumendosi in prima persona il rischio d’impresa, è il motore stesso dell’intero sistema capitalistico. Il suo successo individuale non è scindibile da quello della sua impresa. Inoltre, una volta ottenuta tale realizzazione, è prassi contemporanea tendere a destinare parte del capitale a operazioni di “igiene dell’immagine” (es. corporate social responsibility, fondazioni caritatevoli, cooperazione allo sviluppo).

In Italia: è sport nazionale la demonizzazione di chi si arricchisce perché per farlo ha sicuramente imbrogliato e rubato (vedi vario giustizialismo populista, poi riflesso in partiti, magistratura, stampa e intellettuali) oltre che probabilmente ha agito immoralmente (vedi distorsioni moralistiche del discorso politico, oltre che di quello religioso). È inoltre molto meno rilevante la prassi di sublimare parte del profitto in attività di igiene dell’immagine, anche per via del nanismo delle imprese tricolori.

Il Profitto e il Margine. L’obiettivo principale del capitalista è l’ottenimento di profitto dalla sua intrapresa economica, a fronte appunto del rischio assunto e come remunerazione dell’uso del suo capitale. Maggiore il profitto, più sarà facile attrarre capitale, e dunque naturalmente si tenderà verso imprese con i margini più elevati possibili.

In Italia: a livello individuale, l’agire “solo” per il profitto viene nel discorso pubblico stigmatizzato come socialmente inopportuno o persino innaturale. A livello macro, le aziende italiane sono cronicamente sottocapitalizzate anche perché sul mercato azionario (se ci vanno) generano in media margini inferiori ai competitor internazionali, questione certo aggravata dalla produttività stagnante.

Le banche. Nella macchina capitalistica, l’obiettivo originario delle banche, peraltro ironicamente con tal nome in buona parte delle lingue derivato dal lemma italiano, è raccogliere capitali per poterli utilizzare in imprese di rischio a redditività maggiore rispetto a quella restituita ai prestatori. Oggi tale redditività viene più spesso raggiunta ad esempio attraverso trading, ingegneria finanziaria o supportando aziende nelle loro fusioni e acquisizioni invece che finanziando strade, case o capannoni.

In Italia: inefficienza gestionale, scarsa innovazione e incapacità di diversificare su finanza evoluta come i peer d’oltralpe. Ma soprattutto, a oggi inadeguatezza a supportare la crescita del tessuto economico di un Paese del G7 (la famosa statistica del debito privato italiano minore di quello degli altri Paesi OCSE può in realtà più esser letto come segnale della difficoltà di indebitarsi, e dunque investire, che della bravura nel risparmiare).

La crescita economica sempiterna. Le maggiori critiche al sistema capitalistico sono giunte storicamente alla sua capacità di autosostenersi, e in particolare sulla necessità di mantenere un tasso di crescita “eterno” per tenere in piedi le storture del sistema. Finora, con tutti i limiti del caso e attraverso crisi senz’altro dolorose, non si può tuttavia negare che il paradosso della crescita senza fine ha funzionato, anche grazie alla straordinaria accelerazione dello sviluppo tecno-scientifico moderno e relativo aumento di produttività.

In Italia: basta ricordare che siamo in stagnazione da circa 15 anni. E questo sarebbe anche affrontabile se ci fosse la volontà di investire e tornare a crescere, ma la radice del problema è che la vulgata della “decrescita felice” e dintorni è ormai radicata in molta parte del Paese (e del panorama politico).

Scienza, Progresso e Cambiamento. L’ultimo (di questo elenco) formidabile connotato del capitalismo è la sua capacità di adattarsi e di cambiare, col sostegno della ricerca scientifica e della tecnologia. La volontà di perseguire il progresso della società tramite il cambiamento, o anche solo di consentirlo, ne è forse la caratteristica più vera. Questo presuppone un’applicazione pedissequa del metodo scientifico a ogni aspetto della società e della conoscenza oltre che un investimento significativo in tecnologia e uno slancio collettivo verso il progresso.

In Italia: anti-scientismo e passatismo diffuso, vuoto di visione e direzione sul lungo periodo con pianificazione macroeconomica inadeguata, incapacità acclarata della macchina pubblica di applicare metodo scientifico ai processi decisionali e di governance, marginalizzazione nel dibattito pubblico di grandi questioni indotte dal progresso (citiamo AI, bioingegneria, genetica), sistema scolastico che insegue affannosamente la contemporaneità generando necessariamente ritardo sociale, ricerca su pil appena sopra l’1% tra le più basse OCSE. In breve: resistenza al cambiamento totalmente fuori scala.

Di fronte a questo scenario, l’Italia appare dilaniata tra una sovrastruttura capitalista internazionale che tira in avanti e una struttura locale e localista che invoca l’immobilismo come soluzione improbabile alle questioni del mondo contemporaneo, e tira indietro. Ogni tentativo di ridisegnare il futuro di questo nostro Paese alla deriva dovrebbe credo ripartire da qui: vogliamo una volta per tutte imbracciare l’Internazionale Capitalista? E se invece, per improvviso attacco di coerenza, decidessimo di ricusare tale sistema, siamo in grado di elaborare, primi al mondo, un’alternativa socioeconomica credibile?