Un settore che rappresenta un esempio di integrazione tra sviluppo infrastrutturale e promozione ambientale. È la gestione del verde autostradale, di cui Ecogest è azienda leader in Italia e proiettata in una dimensione internazionale. Un'intervista a Valerio Molinari, Ceo del gruppo, che dice: "Abbiamo scelto di non fallire, quindi non partecipiamo più ad appalti pubblici".

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Ecogest è un'impresa che compie vent'anni. Si occupa di ingegneria e manutenzione ambientale, in un quadro di progettazioni e interventi di natura infrastrutturale. Per un'impresa di questa natura provare a crescere e a internazionalizzarsi rappresenta una scommessa rischiosa, ma necessaria, visto che i grandi investimenti in infrastrutture e nelle opere connesse si concentrano principalmente nei Paesi di più recente sviluppo. Nel nostro viaggio tra le imprese italiane, grandi e piccole, conosciute e meno conosciute, alle prese con la sfida dell'innovazione, Ecogest rappresenta un esempio che vale la pena raccontare. Ne parliamo con Valerio Molinari, Ceo del gruppo, che parte da una premessa insieme imprenditoriale e politica.
Ecogest ha deciso alla fine del 2013 di non fallire, per non buttare all'aria 50 anni di storia familiare e 20 di esperienza. Proprio per non fallire, abbiamo deciso - penso coraggiosamente - di non partecipare più ad alcun appalto pubblico. Era l'unico modo per salvaguardare la qualità dei servizi e soprattutto l'esigibilità dei crediti. All'inizio del 2014 Ecogest aveva appalti pluriennali per nove concessionarie autostradali private. Se ne sono aggiunte altre due nel corso dell'anno. Oggi percorriamo 7 milioni di km l'anno, puliamo oltre 2500 km di autostrade: significa tagliare erba e pulire fossi, intervenendo su quasi 100 milioni di metri quadrati di superfici l'anno, per garantire sicurezza e vivibilità agli automobilisti che solcano le nostre autostrade.

Oltre a operare in Italia, Ecogest ha significative proiezioni estere in Polonia, Romania e Turchia. Quella della crescita dimensionale è una scelta obbligata?
No, assolutamente. Direi piuttosto che è una scelta dettata dal desiderio di crescita, di esportare know-how oltre confine in quei Paesi dove, attraverso i nostri servizi, si crea occupazione vera e concreta senza accesso a finanziamenti o agevolazioni; semplicemente assumendo personale per tenere pulite le strade e le autostrade.

E non ci sono anche nel suo settore i paventati rischi di delocalizzazione, che per molti rappresentano la conseguenza inevitabile dell'internazionalizzazione delle imprese italiane?
Da noi la parola “delocalizzazione” è vietata: diamo lavoro a oltre 130 persone in 13 regioni italiane, garantendo efficienza, velocità e qualità.

Il processo di internazionalizzazione quali cambiamenti e quali problemi implica per un'impresa che non esporta prodotti, ma persone, macchinari e know how, cioè tutto ciò che sta dietro le opere e i servizi offerti?
Un processo di internazionalizzazione implica la capacità dell'imprenditore di trasferire al proprio staff una vision ed una mission appropriata. Qualsiasi Paese, fuori dai nostri confini, ha cultura, leggi e consuetudini diverse dalle nostre. Più o meno diverse, ma sempre diverse. Ecogest ha affrontato questa sfida, a partire dal febbraio 2014, attuando una riorganizzazione interna che ha visto attori e protagonisti non solo il board, ma tutta l'azienda, partendo dalle persone più flessibili e desiderose di crescita professionale. Abbiamo investito risorse umane e tecnologiche che sono un patrimonio aziendale e diventano parte integrante del processo di internazionalizzazione.

Scegliere di investire all'estero significa investire in conoscenza, relazioni e partnership. Questo vale sempre, ma soprattutto in un settore in cui la committenza è pubblica, il mercato è pesantemente regolato e andare all'estero significa spostare o reclutare in loco uomini e mezzi. In che modo le istituzioni deputate a promuovere l'internazionalizzazione delle imprese possono aiutare questo sforzo?
Spostare uomini e mezzi è un problema interno; rapportarsi con gli interlocutori stranieri diventa un problema di relazioni, ma anche di cultura. Guardando alla nostra identità aziendale ci siamo rivolti alla rete diplomatica con un solo fine: capire cosa fosse più corretto e utile fare rispetto ai nostri obiettivi e come si potesse utilizzare l'attività delle ambasciate italiane, che si sono dimostrate, nella massima parte, all'altezza della situazione. Il concetto di "sistema Paese" deve essere privilegiato anche al di fuori dei confini nazionali. Ovviamente, le ambasciate non sono uno sportello aperto al pubblico o strutture dedite al "problem solving", ma sono e devono essere la casa degli italiani all'estero; a maggior ragione per quelle aziende che, scommettendo risorse proprie, tentano, attraverso l'esportazione delle piccole e grandi eccellenze che caratterizzano il tessuto dalla piccola e media impresa nazionale, di mantenere, e se possibile accrescere, i livelli occupazionali anche in momenti così difficili per la nostra economia.

E in che modo le imprese italiane posso fare sistema?
Certo è che una buona struttura operativa ed una buona rete di relazioni aiuta l'azienda ad inserirsi nel contesto in cui si decide di operare; fare sistema con le imprese italiane all'estero è senza dubbio utile e propedeutico nella risoluzione delle problematiche operative iniziali e nel primo approccio al mercato. Ma non bisogna mai dimenticare che si è ospiti e bisogna comportarsi come tali, anche rispettando logiche commerciali e di mercato che ai nostri occhi possono apparire desuete o barocche.

Quello della manutenzione del verde nelle infrastrutture di comunicazione è stato storicamente un mercato molto parcellizzato, con tante piccolissime imprese e pochissima concorrenza, e con inefficienze evidenti sul piano del servizio e dei costi. L'immagine dell'abbandono e del degrado lungo le arterie stradali e autostradali è spesso un pessimo biglietto da visita per l'Italia. Ci sono interventi in senso lato politici - cioè normativi, regolatori, amministrativi - che è necessario immaginare per migliorare la situazione?
Se la politica e l'amministrazione vogliono fare qualcosa devono intervenire radicalmente sul codice degli appalti, ma soprattutto sulle risorse umane deputate a gestire il patrimonio infrastrutturale. Un appalto pubblico per servizi di manutenzione non viene aggiudicato a meno del 50%. Personalmente ho letto di soglie di anomalia determinate al 51% e appalti aggiudicati senza alcun problema anche fino al 58% di ribasso, a soggetti che oggettivamente, attesa l'impossibilità di gestire un simile ribasso, fatto il primo intervento e fatta la prima fattura, lasciano il lavoro con contestazioni di ogni genere e rompendo i rapporti con l'ente appaltante. Il risultato di questa politica amministrativa? Strade in uno stato pietoso, fiumi pieni di rifiuti di ogni genere, frane, dissesti e interi tratti stradali chiusi all'utenza.

Ecogest è un'impresa che si occupa di "verde" in un settore che, secondo una certa vulgata ambientalista, è l'antitesi del "verde". Tutte le opere infrastrutturali, a maggior ragione se grandi, sono sospettate di devastare il territorio.
Il verde e le opere che rientrano in tale definizione tecnica sono tutte quelle opere che consentono di ripristinare e riportare in equilibrio un territorio interessato da una forte antropizzazione; i progetti per le nuove opere infrastrutturali prevedono quote fisse e invariabili destinate alle attività di ripristino ambientale. Questa è la direzione giusta, anche se andrebbero previsti, per le grandi imprese di costruzioni, alcuni requisiti da ricondurre non al singolo soggetto che partecipa l'opera ma all'eventuale associato che, appunto, realizzerebbe solo le opere in verde; ciò permetterebbe di rimandare alle imprese del verde oneri ed onori, e all'appaltatore principale di non trovarsi in condizioni di pessima esecuzione delle opere ambientali e scarsa, o inesistente, manutenzione.

Come spiegherebbe a un cittadino scettico in che modo le "opere" e il "verde" non sono l'uno il contrario dell'altro e gli interventi infrastrutturali possono rappresentare un fattore di riqualificazione non solo economica, ma ambientale?
È chiaro che, se bisogna costruire un ponte, una galleria o un'opera di trasporto, bisogna attraversare il territorio. Diversamente stiamo facendo filosofia e basta. Le moderne tecniche, se correttamente applicate, oggi consentono di realizzare qualsiasi opera mantenendo, curando e ripristinando l'ecosistema del sito. Chi si trincera dietro l'impossibilità di salvaguardare l'ambiente dagli interventi infrastrutturali spesso non ha l'obiettivo di tutelarlo, ma solo di far sì che tutto resti com'è, a spese del Paese, dei cittadini, e della competitività delle imprese.
Dico sempre a mio figlio "guarda questa foto: qui costruiranno un'autostrada e queste sono le piante che rimetteranno non appena avranno finito di costruirla". Mi piacerebbe raccontare la stessa cosa ai nostri connazionali, ma purtroppo in Italia i progetti sono sempre in mano a una ristretta lobby che contesta, blocca e impedisce l'avanzamento delle opere più importanti per la crescita del Paese; gli stessi che poi vanno in Turchia e, attraversando il terzo ponte sul Bosforo, vedono che lo Stato ha fatto piantare sul sito 1.800.000 alberature per ricucire l'ecosistema e si augurano che ciò accada anche in Italia dopo essere stati i protagonisti dell'inerzia totale nella quale ci troviamo. Mi piacerebbe potere non solo immaginare ma anche ritrovare un'Italia migliore nella quale imprese, Stato e politica riescano finalmente a fare squadra.