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Alla domanda “ti è piaciuto?” la risposta è aperta. Al variare di età, gusti musicali, gusti cinematografici, i giudizi possono cambiare sensibilmente. Chi scrive si pone tra i recensori positivi di Bohemian Rhapsody, ma conta poco ai fini della lettura che vorrei proporne con questo articolo.

C’è infatti, in questo blockbuster, un aspetto che a mio avviso vale più del “bello o brutto” o del “riuscito o non riuscito”. Perché la pellicola ha oggettivi punti di forza e oggettivi punti deboli, ma ciò che la rende interessante - anche nel genere feticista cui va ascritta - è il livello di maniacalità del dettaglio verista.

Inutile dire come il John Deacon del film sia più uguale a John Deacon di John Deacon medesimo, e che la somiglianza degli attori ai personaggi reali sia in generale pressoché perfetta. La crescente attenzione che si mostra per il particolare, sempre più forte a mano a mano che le tappe della storia del gruppo si susseguono - tra concerti, eventi, momenti simbolici, loghi, richiami a fatti o persone o cose - letteralmente esplode negli ultimi venti minuti del film. Cioè il tempo in cui la sovrapposizione tra realtà e finzione diventa anch’essa perfetta, nella dilatazione dello spazio dedicato all’esibizione al Live Aid del 1985 (spazio che in un film dovrebbe essere normalmente ridotto, in coerenza e in proporzione alla complessità dell’impianto narrativo) fino a una coincidenza esatta con la realtà. Una scelta che, a memoria, non mi pare trovi precedenti.

I venti minuti suonati dai veri Queen sul palco di Wembley il 13 luglio 1985 diventano quindi altrettanti minuti di cinema, in cui i finti identici Queen replicano pedissequamente gesti, sguardi, mosse dei personaggi reali. Il risultato potrebbe essere quello, già visto, di una puntuale e precisa replica del vero; ma il film, ed è questo che è in fondo notevole, va oltre. Perché con l’aiuto del digitale - che peraltro non scade in abuso - non solo è possibile riprodurre cioè che tutti hanno visto quel giorno, ma se ne può offrire un "punto di vista” letteralmente nuovo e sicuramente più completo. Il drone che sorvola lo stadio, che corre sul pubblico, che arriva ai dettagli del palco e sul palco, costruisce inquadrature impossibili in quanto inesistenti: tali appunto perché allora "non sono esistite", perché semplicemente "non c’erano". Però anche allora c’era lo stadio, c’era il pubblico e c’erano quei dettagli, nel e sul palco; e pertanto si può dire che queste riprese, questi sguardi, consentono una riproduzione in fondo persino più autentica e realistica dell'originale, analogamente a quel che si diceva della faccia, ma soprattutto dei capelli di John Deacon.

In altre parole l’idea per cui si possa ritrovare nel film un maggior grado di verità o verosimiglianza di quanta ve ne sia in un video dell’epoca, potrebbe non essere del tutto peregrina. Che il falso, o il non-vero, possa essere "più vero del vero" è un evidente paradosso logico, ma in un caso come questo la costruzione stessa della riproduzione, il suo contenuto tecnologico, l’estremismo feticistico che esprime, possono e devono a mio avviso giustificare una riflessione più ampia e più coraggiosa sulla dicotomica falso/autentico, e su come informi il senso stesso dei nostri tempi.

Non è un caso che proprio in questi giorni, esattamente ribaltando lo schema di sopra - che vuole una fiction più verosimile della storia che racconta - Kevin Spacey abbia deciso di difendersi da accuse reali, in un processo reale, tornando a vestire i panni di Frank Underwood, il personaggio che proprio quelle accuse gli avevano tolto la possibilità di continuare a impersonare.

Braccato da una realtà che egli assume falsificata o comunque sleale, Spacey affida alla virtualità del ruolo interpretato in una fiction tv e alla sua potente carica evocativa la difesa di se stesso, in quella stessa realtà. “Let me be Frank”, esordisce, giocando con le parole e con la stessa idea che le finzione sia più credibile di ciò che è vero: o meglio - ed è fondamentale - di ciò che noi assumiamo essere vero. In questa confusione di spazi e di contesti l’esito si fa giocoforza più incerto e misterioso: in fondo, spiega Spacey, “non mi avete ancora visto morire”. Una frase che lascia aperta l’ultima fondamentale domanda: dov’è che si muore davvero? Sullo schermo o nella realtà? In ciò che sembra finto o in ciò che sembra vero?

Forse non è un caso che anche il film si fermi prima della scomparsa di Freddie Mercury. Come se la telecamera - dopo essere stata maniacalmente ovunque, in terra e in cielo - d’un tratto si spegnesse, smettesse di riprendere, non guardasse più. Non ci sono immagini, e se non ci sono immagini oggi forse niente è vero, neanche la morte.