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L’addio di Marchionne era inaspettato. A quanto pare, pure nel cerchio ristretto degli azionisti di controllo e del management di FCA, che non erano all’oscuro della sua malattia, l’accelerazione dei tempi e dei modi della successione ha dovuto seguire l’aggravarsi repentino delle condizioni dell’uomo che in 14 anni ha cambiato il destino della fabbrica e l’orizzonte della “Famiglia”. Ma anche in questo scarto, in questo scombinamento dell’ordine stabilito, c’è una coerenza con la storia di questo anomalo capitano d’impresa.

Tutto nella vicenda di Marchionne alla Fiat è stato all’insegna della sorpresa e della contraddizione. Era un uomo puro di finanza, ma ha riancorato all’auto gli affari degli Agnelli, orfani di Gianni e di Umberto, contro le aspettative e forse pure la volontà degli eredi. Era italiano per modo di dire, ma ha segnato, anche in senso politico, l’italianità della Fiat, con un corpo a corpo con il sindacato e con Confindustria, che ha cambiato il corso delle relazioni industriali in Italia.

Era arrivato come consigliere tecnico della “casata”, cooptato dai fiduciari dell’Avvocato - gli stessi che con una spregiudicata operazione finanziaria avrebbero nel 2005 impedito l’acquisizione del controllo della Fiat da parte delle banche creditrici. Ma ha affrancato la Fiat dalla monarchia ora illuminata, ora capricciosa, ma sempre introversamente familiare della “Famiglia” e ha dato all’impresa un profilo finalmente contemporaneo - verrebbe da dire: repubblicano - e non più legato per le scelte di fondo solo agli equilibri psicologici ed economici di parenti, consiglieri e famigli. Marchionne segna il passaggio all’età adulta di un’impresa con più di un secolo di storia, che era diventata vecchia, senza mai diventare grande.

Anche a Marchionne, come a tutti gli innovatori, è toccato essere, suo malgrado, un futurologo. I suoi interventi politici, però, sono stati in genere molto meno impattanti delle conseguenze politiche delle sue scelte extrapolitiche. Si ricorderà la sua guerra alla Fiom (e viceversa) su Pomigliano, non il suo renzismo o il suo obaminismo. Altrettanto incline al “governativismo” di maniera (questo sì, scuola Agnelli) potrebbe forse apparire anche il suo trumpismo. E c’è da sperarlo, non tanto per Marchionne, quanto per chi sarà chiamato a verificare la sua ultima profezia, pronunciata nella sua ultima uscita pubblica e ridotta, nella sintesi giornalistica, alla mera condiscendenza verso il protezionismo del Presidente Usa. “I dazi di Trump? Politicamente li capisco. Non è la fine del mondo”.

Per chi senta le sue parole, questa dichiarata relativizzazione del problema - “tutto si può gestire” - è però concretamente rovesciata nel suo contrario, cioè nell’accettazione del radicale rovesciamento dell’ordine politico occidentale e di quello economico internazionale. Ad angosciare in quelle parole non è solo l’estrema difficoltà di un uomo affannato, che fatica a parlare e a respirare e o parla o respira e incespica costantemente nei respiri e nelle parole... Ad angosciare è soprattutto il fatto che il volontario o involontario testamento politico-economico del manager italiano più globale sia nel senso della resa - “negoziata”, ma pur sempre una resa - agli stati nazionali come padroni del sistema del commercio globale.

Quando gli chiedono: “Ma l’Europa può accettare di subire questi dazi?”, lui risponde che, siccome il flusso di esportazioni di auto dell’Italia e della Francia in Usa è del tutto diverso da quello della Germania, “parlare di Europa in un senso collettivo è sbagliato”. Se però è sbagliato sulle auto, è sbagliato su tutti i prodotti, che non sono esportati dai diversi paesi in modo proporzionale al loro peso economico e demografico. Quando dice che c’è molto da cambiare nelle regole del commercio mondiale - non facendo riferimento al dumping sociale e ambientale dei paesi ex emergenti, ma alla competitività tedesca ed europea sul mercato occidentale e nordamericano - a finire nel mirino sono proprio le ragioni e le regole che hanno consentito a Marchionne il miracolo del salvataggio e del rilancio della Fiat.

Sembra esserci qualcosa di più profondo - e speriamo non di più profetico - del doveroso realismo del leader di una società a cavallo della nuova frontiera commerciale, che rischia di essere strangolata su di un lato e sull’altro dell’Atlantico dai dazi di Trump e dai contro-dazi europei. Sentire Marchionne dire, neppure troppo implicitamente, che la cosa più logica sarebbe che Italia e Francia si alleassero nella guerra commerciale Usa alla Germania, per strappare condizioni commerciali di favore, mette letteralmente i brividi. Quella che - lui dice - “non è la fine del mondo”, è davvero la fine del mondo, o per lo meno del mondo globale.

Siamo molto oltre il doveroso scappellamento verso un potente di qualunque player economico interessato a non incrociare le ire della sua potenza. E siamo molto oltre la superficiale sottovalutazione della portata di quel futuro previsto e in qualche modo secondato e accettato. Quando diceva quel che ha detto, Marchionne non poteva non sapere che anche la “sua” Fiat, che non è né italiana, né americana, né le sole due cose assieme, non potrebbe oggi sopravvivere così com’è a una riperimetrazione protezionista delle frontiere globali e che da una guerra commerciale tra Usa e Ue o - peggio ancora - dalla esplosione dell’Ue a seguito della negoziazione di barriere tariffarie differenziate tra Paesi membri, la “sua” Fiat uscirebbe comunque sfigurata.

Inoltre - e a maggior ragione - non poteva non sapere che la suggerita complicità con Trump terremoterebbe le relazioni commerciali italiane con quello che è e sarà ancora a lungo - ben più degli Usa - il principale importatore di prodotti italiani, cioè la Germania. Se i dazi di Trump sull’auto possono costare alla Germania fino a 20 miliardi, l’eventuale complicità italiana con Trump metterebbe a rischio oltre 55 miliardi di esportazioni italiane in Germania.

Nelle sue parole relativizzanti non c’è una proposta pratica, ma una previsione tragica.

@carmelopalma