Gardini e Marchionne, venticinque anni dopo: la sconfitta di due vincenti
Innovazione e mercato
L’Italia asfittica, rinunciataria, non donna di province ma bordello di rendite di posizione. Terra di immobiliaristi buoni a nulla, imprenditori tascabili senza coraggio, figli di imperi sullo yacht a Ibiza, urla senza stile, terrazze sguaiate e salotti buoni a guardia del crepuscolo sorrentiniano, tra un brunch e un ape, rancori e invidie, tra il miglio quadrato della grande piovra romana e i bistrot sotto la Madonnina, tra l’operaismo d’accatto e i soldi all’estero.
E allora lasciateci modellare l’eroe che questo paese non merita, lasciateci far passeggiare insieme due uomini diversi che però, entrambi, hanno combattuto il corporativismo, il consociativismo e l’opportunismo secolare che scorre nel sangue tricolore.
Cosmopolita, cavallo di ritorno nel belpaese, schivo e riservato, understatement sempre, cultore del lavoro e della programmazione uno. Rampante, avido esploratore con radici rurali, coraggioso e impaziente, elegante e cool, orgoglioso e visionario l’altro. Nati entrambi sull’Adriatico, in condizioni sociali diverse ma con quel guizzo di ingegno in comune.
Entrambi per 14 anni alla ribalta pubblica, fanno calare il sipario a distanza di 25 anni esatti l'uno dall’altro.
Manager italiani alla conquista del mondo, con una taglia sulla testa pronta ad essere escussa dal sistema, quel sistema che gode a navigare nello stagno putrido e vuole affondarci chiunque osi alzare la testa. Vincente uno, perdente l’altro. Sconfitto dalla malattia uno, suicida per orgoglio contadino l’altro. Ad unire il filo sottile del teatrino di figuranti che ha fatto da sfondo a queste vite sopra le righe, il rigetto che il corpo malato del paese dimostra verso organi dal dna diverso.
Quando Raul Gardini provò a portare a termine il sogno di un polo chimico privato che sfidasse il mondo intero, fu atterrato dalla politica che lui stesso giudicava “un vitello che non vuole essere svezzato”. Eppure aveva immaginato l’etanolo nei carburanti e le bio-plastiche, precorrendo i tempi. E invece la politica lo prese ostaggio estorcendogli centinaia di miliardi in tangenti, azzoppando e spegnendo una intera filiera che giusto oggi tenta faticosamente di riprendersi.
Quando i tentativi di Marchionne di rendere sostenibile la produzione automobilistica in Italia incontrarono la FIOM, migliaia di posti di lavoro rischiarono di essere cancellati. La grande vittoria sindacale ottenuta con spregiudicatezza, l’uscita da quella Confindustria in mano ai soliti noti, grand commis di una burocrazia imprenditoriale capace solo di gestire e amministrare, oggi 50.000 italiani impiegati nel gruppo e l’icona del made in USA, la Jeep, prodotta in Basilicata.
Destini diversi, ere diverse, finali diversi. La stessa Italia debole, lo stesso tentativo di cambiare la filosofia aziendale, l’etica del lavoro, la cultura provinciale in visione globale. Il dato evidente di un arretramento e di una chiusura, così chiaro nell’agone politico, ha la sua matrice e la sua fonte anti-globalista nell’approccio succube e passivo che tanta imprenditoria italiana ha verso l’estero, spesso giustificata dalle dimensioni aziendali ridotte che garantiscono prestigio agli uomini gelosi del loro potere e poche chance di concorrenza sui mercati internazionali.
L’Italia capace di essere in cima alle classifiche di tantissime nicchie di mercato, dai macchinari agli occhiali, ha rinunciato a dominare l’industria ad alta intensità di capitale, quella con margini ridotti e fatturati enormi, quella rischiosa che non garantisce il piccolo dividendo costante e certo dell’investimento immobiliare, finanziario, bancario. Gli imprenditori italiani hanno rinunciato, o forse non hanno mai provato, a sfidare lo status quo, il potere politico, a tagliare il cordone ombelicale e lottare in campo aperto con i flutti. Una borghesia senza il suo ruolo motore, spenta e assente. Una sconfitta comune, un’agonia lenta.
Alla fine questa è una carrellata di stereotipi, eccessi e semplificazioni. Non ci resta che pagare il giusto tributo all’uomo che ha salvato il primo gruppo industriale privato italiano da morte certa. Avremmo voluto che usasse i superpoteri per salvare anche l’Italia, per lasciare spazi a tanti giovani Gardini senza speranza, ma non sarà possibile.