Domeniche gratis ai musei: i 'perché sì' economicisti di un liberale
Innovazione e mercato
Il ministro per i Beni Culturali Alberto Bonisoli ha annunciato che provvederà a cancellare l’obbligatorietà dell’ingresso gratuito nei musei tutte le prime domeniche del mese. Un provvedimento del ministro Franceschini che aveva fatto registrare un boom di presenze, all’interno di una generale crescita degli accessi e degli incassi in tutti le attrazioni museali e archeologiche principali del paese. Perché, dunque, cancellarle?
Francesco Giubilei, giovanissimo editore di area liberal conservatrice, scrive su Cultora che ha senso eliminare l’iniziativa. Sfrutto le sue analisi per offrire delle controdeduzioni poco retoriche e molto, mi si passi il termine, economicistiche.
La prima, forse la più fastidiosa perché suona decisamente elitista, è quella dell’orda barbarica senza il necessario “savoir faire” che disturba chi vuole godersi l’arte in santa pace (sono il primo ad amare il silenzio di tomba nei musei, sia chiaro). Leggendo mi è venuta in mente una fantastica scena di “Vacanze di Natale ‘83” dove la signorotta habitué di Cortina si lamenta con il figlio per le sue frequentazioni, esclamando: “Ma se i torpigna (gli abitanti di Tor Pignattara, borgata romana) dopo averci invaso Piazza di Spagna, ci invadono anche Cortina, allora non lo so, vendiamoci la casa!”.
Scherzi a parte, mi pare una argomentazione fallace per un motivo semplicissimo: una domenica al mese su quattro non implica un obbligo, per chi predilige il silenzio, a partecipare alla visita proprio quel giorno. È una perfetta discriminazione di prezzo, come la prima e la seconda classe nei treni. Secondo la teoria economica la discriminazione di prezzo ottimizza la creazione di valore sia per chi fornisce il bene museale (incassi) sia per chi ne fruisce (valore percepito). Anzi, questo disagio è un argomento a favore: dimostra che chi è disposto a pagare eviterà di andare proprio quel giorno, sorbendosi il caos mentre, tra tutti gli altri, chi è interessato a sufficienza pagherà lo scotto della fila.
Il secondo argomento è questo: ogni bene o servizio ha un prezzo, 10 euro sono una birra e un pacchetto di sigarette, che siamo ben disposti a spendere mentre per un museo pare di no. Qui vedo due punti da sottolineare: il primo è che chi ha famiglia spende molto di più e avviare i bambini/adolescenti alla cultura è il primo degli obiettivi. Spendere 20-30 euro per una famiglia, al netto dei prezzi ridotti, è tanto. L’altro punto si basa, ancora, sulla curva di domanda di un bene: ognuno dà valore diverso al prezzo di un bene, se il valore è superiore al prezzo lo acquista, altrimenti no. Per molti la visita al museo ha un valore non nullo, dunque maggiore di zero, ma non superiore al prezzo. Possiamo dire che dare accesso a questi signori alla cultura, patrimonio comune, ha un valore per il sistema paese? Anche perché, ed è l’obiezione seguente di Giubilei, il tutto è sulle spalle dello Stato. Bene, vero. Ma le tasse dello Stato servono anche per la redistribuzione e, da liberale, direi che redistribuire per generare crescita umana e investimento culturale nel capitale umano è molto più sensato che fare welfare e assistenzialismo. Mi pare un’altra faccia del valore progressivo della tassazione come statuito dalla costituzione.
Si cita poi l’esempio anglosassone, dove ad esempio il British Museum di Londra è gratuito. Vero è, come sottolinea Giubilei, che in quei casi sono comunque fondazioni e privati a sostentare, seppur godendo di sgravi fiscali (quindi a carico del pubblico, di nuovo), i musei stessi. Ma in ogni caso, che venga dai privati o dal pubblico, l’ottica redistributiva e di investimento è la stessa. E il governo precedente un passo nel verso del finanziamento privato l’ha fatto. Manca la borghesia illuminata, nel paese, ma non è colpa della politica.
In ultimo, l’editore sostiene che “la cultura si paga” con riferimento chiaro a tanti esempi di “mentalità” distorta, dalla musica alla lettura ai giornali online, riguardo la non retribuzione del lavoro artistico. Tutto vero, la produzione culturale deve essere valorizzata e non fatta percepire come lavoro minore o svago. Ma qui non si tratta di far pagare il lavoro di un artista/scrittore bensì di far pagare l’eredità comune del popolo italiano, un bene comune e di tutti. Una proprietà indivisa di cui sarebbe bello poter far fruire tutti indistintamente.
In ultimo, lo aggiungo io a latere, il segnale che il governo dà è sgradevole. Sembra si cerchi il cambiamento a tutti i costi, da una parte. E, più maliziosamente, sembra si voglia scoraggiare la fruizione di cultura. Sembra, sia chiaro. Ed è poca cosa. Ma sufficiente per posizionare ulteriormente la maggioranza.