C’è un’Europa centro di potere, salotto di gruppi di pressione e bivacco di burocrati, non dissimile da Roma, Atene o Lisbona. C’è però anche un’Europa delle opportunità, che per decenni ha fornito alle regioni economicamente più arretrate gli strumenti finanziari per colmare il gap che le distanziava dalle aree più sviluppate. Chi per decenni ha sprecato o sottoutilizzato i fondi strutturali europei oggi fa dell'Europa l'alibi per le proprie responsabilità.

venanzi - Copia

Nel ripercorrere la storia di diversi movimenti politici dal Novecento ai nostri giorni, si ripresentano alcune costanti che permettono di accomunarli e relegarli tutti nel grande contenitore dei populismi, che con la crisi economica e la crescente difficoltà degli stati nel far fronte all’espansione incontrollata del debito sovrano si è popolato come non accadeva ormai dall’ultimo conflitto mondiale.

Tra questi connotati, a partire da nazionalismi e socialismi dello scorso secolo per giungere alle attuali declinazioni dell’antieuropeismo, spicca quella che Hannah Arendt definiva la creazione di un “nemico oggettivo”.  In tempi ben più cupi era incarnato dal popolo ebraico, dallo straniero o dalla classe borghese, oggi – mutatis mutandis – da poteri “forti” reali o immaginari, incarnati anzittutto da istituzioni europee, governo tedesco e BCE, che nelle teorie del nemico oggettivo – guai a chiamarle teorie del complotto – si (con)fondono in un’unica entità astratta.

Una volta identificato un nemico, poco importa stabilirne le effettive responsabilità. Perché in realtà il nemico oggettivo, prima ancora di fungere da capro espiatorio, deve servire come alibi per non fare fronte alle proprie responsabilità quando l’emergenza assume proporzioni troppo grandi per poter continuare a nascondere la testa sotto la sabbia. Vano diviene il tentativo di portare argomentazioni razionali con cui spiegare agli infatuati dei movimenti antieuropeisti che un ritorno a monete nazionali deboli e in mano ad istituzioni ben meno terze ed indipendenti della Banca Centrale Europea sarebbe un errore madornale, soprattutto per le economie più in difficoltà. Futile, allo stesso modo, il tentativo di spiegare che, pur rimanendo nell’eurozona e rispettando i parametri di Bruxelles, l’Irlanda è tornata a crescere perché ha portato avanti con serietà una stagione di riforme efficaci. Perché il punto non è la ricerca della verità, ma la creazione di un alibi. È a questo alibi che l’Italia, la Grecia, la Spagna, la Francia (Grillo, Tsipras, Le Pen…) con la coscienza sporca tentano – da destra a sinistra – di aggrapparsi con le unghie e con i denti, trascinando con sé nel baratro le energie migliori del proprio tessuto produttivo e mettendo a repentaglio l’assetto politico ed economico di un intero continente, risultato di uno sforzo lungo oltre sessant’anni.

L’Europa di cui i fautori dell’alibi preferiscono non parlare è quella che per decenni ha fornito alle regioni economicamente più arretrare gli strumenti finanziari per colmare il gap che le distanziava dalle aree più sviluppate, l’Europa che ha costretto ad aprirsi alla concorrenza mercati drogati da condizioni di monopolio e ataviche forme di protezionismo. Di questa Europa, l’Italia dell’alibi – ancor più di altri paesi – non ha saputo approfittare. Mentre i nuovi länder tedeschi, annessi alla Repubblica Federale dopo la caduta del Muro, approfittavano dei fondi strutturali europei per restringere il divario economico e sociale con il resto della Germania e dell’Europa, il Mezzogiorno italiano – così come Grecia e Portogallo – restava a guardare.

Di fatti, è di pochi giorni fa la notizia della conferma da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del taglio di 80 milioni di finanziamenti del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale alla Puglia, in seguito alla constatazione nel 2009 da parte della Commissione Europea di “gravi inadempienze nella gestione e nel controllo dell'utilizzo dei fondi, tali da condurre a irregolarità sistemiche” (sic). Stando ai dati, la quasi totalità delle regioni meridionali (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia) ha, ancora oggi, un PIL pro capite inferiore al 75% della media europea, fanalino di coda d’Europa insieme alle regioni più povere di Grecia e Portogallo; il tutto malgrado siano state – e continuino ad essere – le aree svantaggiate a beneficiare di più dei fondi provenienti da Bruxelles, seconde solo alle regioni destinatarie di Polonia e Spagna – se si guarda al periodo di programmazione 2007-2013.

A guidare la classifica dei paesi che – grazie a quei fondi che il Mezzogiorno è incapace di gestire – hanno ridotto il ritardo delle proprie regioni meno sviluppate sono ora quelli dell’Est, i nuovi membri dell’Europa a 28, in particolare Lituania, Estonia, Slovenia e Polonia, seguiti dalla Germania. Mentre la capacità di spesa dei fondi strutturali di questi paesi si attesta intorno al 40-50%, nello stesso periodo di programmazione (2007-2013) l’Italia ha impiegato un misero 18% dei 28 miliardi a sua disposizione. Peggio di così ha fatto solo la Romania, con il 14%. Perfino la Grecia, cigno nero d’Europa, scavalca lo Stivale di molte posizioni e, a modo suo, anche il Portogallo ha maturato un discreto vantaggio. Il rischio concreto è quello di vedere Bruxelles tagliare ulteriori fondi strutturali alle nostre regioni, ripetendo il copione di quanto avvenuto recentemente in Puglia, mentre in paesi come la Spagna o nelle realtà emergenti dell’Est vengono regolarmente adoperati per la realizzazione di infrastrutture che rendono più competitivo il territorio.

La realtà dei fatti è questa. C’è un’Europa centro di potere, salotto di gruppi di pressione e bivacco di burocrati, non dissimile in questo senso da Roma, Atene o Lisbona. C’è però anche un’Europa delle opportunità, in cui chi è in grado di coglierle e di prestare fede ai patti ha più voce in capitolo di chi sperpera le risorse dei contribuenti e compromette l’integrità di un progetto politico che ha reso più prospero, libero e unito un intero continente. È un’Europa tutt’altro che perfetta, spesso ancora teatro di disparità e responsabile di distorsioni nocive del mercato (si veda la Politica Agricola Comune, con questioni come le quote latte), ma è un’Europa con cui, a dispetto dei populismi, si può crescere e tornare ad essere competitivi. Nei programmi elettorali con cui gli antieuropeisti intendono approdare a Bruxelles tramite le elezioni di maggio, per questa Europa non c’è spazio. c'è spazio solo per il no, per la distruzione e per la dietrologia, perché in paesi che producono classi dirigenti incompetenti e delinquenziali – salvo poi tuonarvi contro come se non fossero state elette ma arrivate da Marte – è più facile fare incetta di voti con l’alibi, con il nemico oggettivo. Al momento, stando alle intenzioni di voto per le europee, il Movimento 5 Stelle, partito che meglio incarna questo sentimento antieuropeista in Italia, è secondo solo al PD, con il 23% delle preferenze. A quanto pare, per riuscire a fare peggio anche della Romania, c’è ancora speranza.