Acciaio UK

Anche una delle economie più forti dell’Unione Europea può avere i suoi scivoloni.

Il Regno Unito, sempre più rampante patria dei servizi grazie al suo hub finanziario rappresentato dalla City di Londra e alla sua burocrazia “light”, sta passando infatti momenti difficili per il settore secondario. La metallurgia, orgoglio di oltremanica fin dalla rivoluzione industriale, ha patito una sonora batosta quando il gigante indiano Tata, famoso anche per le automobili low cost, ha deciso di vendere i suoi asset.

Negli impianti di Scunthorpe e Port Talbot rischiano di perdere il lavoro migliaia di persone, proprio nel momento in cui l’occupazione nelle isole andava a gonfie vele. Un colpo grave, considerando che nell’ultimo anno ci sono già stati molti licenziamenti e che il settore conta oltre 18.000 occupati. Ragione della crisi? La difficoltà a competere con un mercato globalizzato in cui i prezzi si abbassano sempre di più, soprattutto nella rivale Cina dove la forza lavoro è molto più economica.

L’acciaio che da lì arriva in Inghilterra costa meno di 600 euro a tonnellata, mentre quello esportato dall’UE costa circa 900 euro. Una competizione che è già costata più di 4000 posti di lavoro agli operai di Tata, e di altri giganti come Caparo e la thailandese SSI. Una competizione che si inserisce in toto nella battaglia commerciale che dura da anni tra Bruxelles e Pechino, con reciproci scambi di accuse e indagini anti-dumping che hanno coinvolto diversi settori, dal fotovoltaico al vino, dalle vernici alle automobili. Tanto che, di recente, l’UE è stata costretta ad intervenire con dazi sul settore dell’acciaio.

Di fronte a tutto ciò la politica, da Berlaymont a Downing Street, è chiamata ad intervenire, nonostante molte delle condizioni per poter competere siano impossibili da raggiungere. Le compensazioni per il costo dell’energia e la promessa di utilizzare materiali locali nei grandi progetti possono essere ancora soddisfatte, ma la richiesta di ridurre ulteriormente i target per le emissioni delle fabbriche sarebbe in netto contrasto con gli obiettivi del COP21. Tutti problemi che in Cina sono considerati poco rilevanti.

La produzione di acciaio in surplus nel mercato mondiale (oltre un terzo di quello prodotto, ricordiamo, rimane inutilizzato), gli alti costi di produzione, energia e manodopera e la richiesta sempre minore da parte delle imprese locali tratteggia un futuro tutt’altro che roseo per l’industria britannica, con il rischio di perdere oltre 5000 posti di lavoro nei prossimi anni. L’acciaio contribuisce sempre meno all’economia di oltremanica, e i suoi profitti sono piatti e scadenti dal 1997; nel 2013 la Cina ha prodotto quasi 800 milioni di tonnellate di metallo. Il Regno Unito solo 12, la metà dell’Italia.

Come accade in questi casi, il richiamo alla nazionalizzazione è una facile sirena. Già nel 2015 Jeremy Corbyn, neoeletto segretario laburista, aveva indicato la nazionalizzazione delle industrie dell’acciaio in Italia come un esempio da seguire, chiedendo un intervento statale come quello promosso da Gordon Brown durante la crisi economica a favore delle banche in crisi. Angela Eagle, Ministro ombra per le attività economiche, ha preso spunto dal suo segretario per chiedere in questi giorni una “nazionalizzazione parziale” delle industrie “finché l’uragano non sarà passato”. Cameron ha detto di non volerne sapere, mentre si affanna a cercare nuovi investitori interessati a subentrare a Tata.

Ma non saranno nuovi investitori a salvare un settore in declino inesorabile. Nazionalizzare significherebbe scaricare sulle spalle dei contribuenti le perdite di un sistema sempre meno produttivo e competitivo. Cercare acquirenti è utile a tirare avanti ancora per qualche anno e prendere tempo, ma occorre una riflessione sostanziale sul tema. In casi come questo deve entrare in gioco il welfare, naturalmente non inteso come assistenzialismo-salvagente di lavoratori e imprese che, non per causa loro, non hanno più futuro.

Il Governo dovrebbe puntare a una razionalizzazione degli impianti e ad una riconversione di quelli in eccesso. I lavoratori dovrebbero essere aiutati nella fase di transizione, nonché agevolati nell'acquisizione di nuove competenze e soprattutto nel reinserirsi in un mercato del lavoro tra i più flessibili del vecchio continente. Uno stato nazionale, per quanto forte di un’economia rampante e in cerca di nuova sovranità, non può sopravvivere alla lenta ma inesorabile ondata di prodotti esportati da chi compete ad un altro livello, producendo 70 volte tanto. Prima lo si capisce e si agisce di conseguenza, meglio è, per le imprese, i lavoratori e chi sarà chiamato a sostenerli quando non potranno più produrre.

Se il Regno Unito riuscirà nella dolorosa impresa, nonostante gli anatemi di Corbyn, sarà l’Italia a dover guardare alla riconversione delle imprese britanniche dell’acciaio in crisi come un esempio da seguire.