NickClegg

Dalle stelle alle stalle, dalla ‘Cleggmania’ alle furiose proteste sulle rette universitarie una volta al Governo, la carriera politica dell’ex leader Libdem Nick Clegg è stata tutt’altro che piatta. Un rollercoaster gaussiano ben lontano dal modesto centrismo professato dal suo partito.

Il protagonista, oggi, ne racconta alti e bassi nel suo nuovo libro “Politics: Between the Extremes”, definito dall'autore “una candida riflessione sulle mie esperienze” ma anche “un tentativo di capire perché la politica è diventata così volatile e incomprensibile negli anni recenti”. Nel suo “zootropio politico” Clegg tratteggia immagini di successi e fallimenti di una carriera: il dibattito tra leader che lo fece arrivare al Governo, il successivo giuramento in coalizione, i manifestanti che bruciavano la sua foto infuriati, le dimissioni.

L’autore traccia una narrazione pacata e tutt’altro che autoassolutoria del suo impatto sulla politica britannica, in cui i Libdem, da lui portati per la prima volta al Governo dagli anni del dopoguerra, sono stati drasticamente ridimensionati. Sì, riconosce i suoi errori, Clegg, ma si toglie anche molti sassolini dalle scarpe.

I funzionari governativi? Incapaci di lavorare in coalizione e discontinui, “a tratti Rolls Royce, a tratti Morris Minor”. Cameron? Posh e spregiudicato. L’ex Primo Ministro ora dimissionario su tutti i fronti è descritto come generalmente collaborativo, sanguigno solo quando occorreva ridisegnare i confini elettorali e imbarazzato nell’implorare il suo vice di lasciare a Osborne la residenza estiva di Dorneywood.

Dalle pagine del libro emerge però lo stesso Clegg che si è visto nell’esperienza di coalizione: timido ed estraneo alla gestione del potere, arroccato in un candido idealismo di fronte allo spietato pragmatismo tory. Venduta l’anima di opposizione del partito, ci si è ritrovati ad essere bersaglio delle scelte altrui.

Nelle sue premature memorie, il liberale che rappresenta il seggio di Sheffield Hallam da 16 anni fa un abile ritratto del paradosso che si trovano ad affrontare i partiti di minoranza nelle coalizioni. Utilizza un paragone abbastanza infelice, tratto dall’occupazione nazista in Olanda. Si tratta del dilemma del burgemeester in oorlog, il sindaco in tempi di guerra, costretto all’epoca a dimettersi per venire rimpiazzato da un fantoccio o a diventare collaborazionista dei tedeschi. Parallelo indelicato e abbastanza offensivo verso gli ex colleghi, ma il cui succo è: o rimani puro o ti comprometti. “Nessuna delle scelte attrae voti” commenta laconico Clegg.

Anche perché i partiti liberali, pur aperti alle contaminazioni, sono coacervi di purismo ideologico, di indefessa “inalleabilità”, di distinguo ed eterne discussioni. Chi ha bazzicato l’ambiente, anche marginalmente, anche non in UK ma in Italia, conosce bene la sensazione.

Tuttavia non è pessimista, Clegg, per il futuro del partito che ha lasciato orfano. Il suo libro, oltre ad essere “una difesa del centrismo”, come recita la quarta di copertina, è “un appello alla ragione” e “una chiamata alle armi”. Un inno al “patriottismo moderno”, di cui parla nell’ultimo capitolo, “Il ritorno del liberalismo”. Patriottismo che per lui non significa difesa dello status-quo, ma riformismo, rule of law, tolleranza e innovazione.

E il liberalismo, secondo Clegg, deve aiutare le persone a creare comunità proprie, deve ospitare idee plurali, deve favorire il decentramento dei poteri. Un richiamo alla razionalità che stride con la schizofrenia attuale della politica britannica, di cui Clegg sembra oggi lontano spettatore, dopo aver ceduto la leadership del partito a Tim Farron. I generici consigli non richiesti all’interno del testo sembrano rivolti a lui. Le scuse per i numerosi errori che l’hanno condotto fuori dai giochi sembrano rivolte invece al partito e alla nazione intera.