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Non è la Rai e non lo sarà mai, almeno stando a guardare le fresche nomine dei direttori di rete del servizio pubblico.

Tutti esterni tranne Andrea Fabiano (RaiUno) e Angelo Teodoli (Rai4); gli altri, da Ilaria Dallatana (RaiDue) alla giornalista Daria Bignardi (RaiTre) passando per Gabriele Romagnoli (RaiSport), sono stati scelti al di fuori della sacca dei dipendenti di Viale Mazzini.

Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, ha condannato questa scelta, denunciando il fatto che il direttore generale Campo dall'Orto (anch'egli un esterno) "evidentemente ritiene che tra gli 11 mila dipendenti non ci sono professionisti in grado di assumere ruoli di rilievo", dando così corpo "al pregiudizio", ha proseguito l'Usigrai, "nei confronti di tutti coloro che in questi anni hanno lavorato per il servizio pubblico, assicurando il primato alla Rai in termini di ascolto e credibilità”.

Più che una sconfitta sindacale, però, si tratta di una sconfitta culturale. La sconfitta di un'azienda che in questi anni non è riuscita ad innovare, che ha offerto una produzione culturale di bassissimo livello (pensate se la programmazione Rai fosse il programma delle scuole pubbliche italiane...), che non ha saputo competere con le tv private sul piano dell'offerta di programmi di intrattenimento e che, sul piano dell'informazione, non ha né di più né di meno di qualsiasi altra emittente.

Ma la colpa non è nè dei dirigenti, nè dei dipendenti. Il problema della Rai sta nel suo modello aziendale pubblico: può raccogliere pubblicità (ma solo fino al punto in cui non diventa un problema per Mediaset), però allo stesso tempo è finanziata col canone e, quindi, considerata dagli italiani al pari di una Asl, che ha il dovere di offrire servizi di qualità.

Finchè Viale Mazzini resterà dello Stato non potremmo aspettarci altro che la solita Rai. Che non è nemmeno la Rai dei sogni dei sindacati o della sinistra, perché resta comunque soggetta alle logiche politiche e in balia di chi occupa Palazzo Chigi. Che sia Berlusconi, Renzi, Grillo o Salvini. In questa sua duplice natura "politica", ogni nomina sarà considerata irrazionale e inadeguata.

Si pensi solo al caso più lampante, il consigliere Carlo Freccero: una autorità indiscussa per quanto riguarda la televisione ma che si è rivelata il cavallo di Troia di Beppe Grillo, suo sponsor politico, per tentare di rimettere piede in Rai.

I dipendenti e i sindacati di Viale Mazzini, dunque, se davvero tengono così tanto alla loro carriera interna più che al loro posto fisso, siano i primi a sostenere la privatizzazione della loro azienda. E lo facciano presto, prima che la Rai diventi una nuova Alitalia. Da salvare con altri soldi pubblici e con tagli drastici al personale.