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Il sistema Rai non può essere pluralista, se non nel senso spartitorio del termine. La misura del suo pluralismo, infatti, è rappresentata dal grado di 'proporzionalizzazione' delle cariche di vertice e della gestione del potere interno. Il massimo del pluralismo, in questa logica, coincide però con il massimo di politicizzazione della Rai e con la perfetta riproduzione della composizione dell'emiciclo parlamentare negli organigrammi di Viale Mazzini.

Il fatto che formalmente l'editore della Rai sia il Parlamento e non il Governo, che ne sarebbe teoricamente il padrone, rende semplicemente più parcellizzato, non meno partitocratico, il controllo sul servizio pubblico di informazione. Il problema è che nelle dispute sulle nomine, che ci sono sempre e sono sempre uguali, il pluralismo non c'entra semplicemente niente. Che Bianca Berlinguer non sia più direttore del TG3 e che, come interpretano gli analisti addentro alle segrete cose, l'opposizione interna al PD abbia così "perso" un TG non rende la Rai meno pluralista, né la sua informazione meno democratica.

Il pluralismo presuppone che esistano editori diversi che con mezzi diversi perseguano interessi diversi, cioè presuppone una concorrenza esterna, non il frazionamento del potere interno alla cosiddetta TV di Stato. È del tutto evidente che non è possibile tirare fuori la Rai da questa logica malata senza mettere in discussione il presupposto di questa logica, che è la proprietà pubblica della Rai e l'anacronistico monopolio del servizio pubblico di informazione. Come abbiamo già scritto e riscritto, il servizio pubblico di informazione oggi non implica affatto l'esistenza di una Tv di Stato; non più, comunque, di quanto il servizio pubblico di comunicazione comporti l'esistenza di una società telefonica o di un internet provider di Stato.

Quali sono i servizi essenziali che oggi il mercato dell'informazione non fornisce e che, rimediando al suo presunto fallimento, la Rai dovrebbe prestare ai cittadini? Perché a fornire questi servizi (ripeto: quali?) deve essere un'azienda con un azionariato partitico? Davvero questi servizi essenziali (ripeto: quali?) costerebbero, su un mercato liberalizzato, un miliardo e ottocento milioni all'anno (adesso forse, con il canone in bolletta, anche qualcosa di più)? E anche l'attuale forma del duopolio della TV generalista, politicamente negoziato ai tempi della legge Gasparri da Berlusconi con Berlusconi medesimo, nella tripla veste di capo del governo, della Rai e di Mediaset, e fiscalmente assistito dallo scambio "canone e meno pubblicità alla Rai - più pubblicità a Mediaset", deve continuare a essere considerata una garanzia di pluralismo?

A queste domande nessuno vuole rispondere. Meno che mai quelli che si stracciano le vesti per i quotidiani attentati al pluralismo di cui si macchierebbe, oggi, il governo pro tempore.

La ragione non è solo ideologica (la Rai pubblica rimane per il partito-Berlinguer, come per i grillini, un feticcio ideologico alla stregua dell'acqua pubblica e della monnezza pubblica), ma anche strettamente pratica, perché la Tv generalista, anche se in modo sempre meno controllabile e lineare, rimane un vettore determinante del consenso politico e dunque tutti i partiti, nell'attuale sistema, sono in palese e irrisolvibile conflitto di interessi. Tutti i partiti - ripeto - e tutti nella stessa misura.

@carmelopalma