Tortora 31 anni dopo: il suo accusatore diventa simbolo di "legalità"
Editoriale
Il 17 giugno del 1983 iniziò con un arresto spettacolare il caso Tortora. Tortora sarebbe morto cinque anni dopo, in tempo per vedersi assolvere definitivamente dalle accuse, per guidare la campagna referendaria che portò nel 1987 all'approvazione plebiscitaria del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati e per assistere sbigottito - un mese prima di morire - al tradimento di quel referendum con una legge esplicitamente concepita per neutralizzarne e non per applicarne gli esiti.
Il caso Tortora è stato la prova provata che il problema politico della giustizia preesisteva a Tangentopoli e a Berlusconi e pressoché inalterato sopravviverà alle nuove Tangentopoli e al berlusconismo solitario y final, perché nel suo fondo non riguarda le inchieste sui politici e sul modo corruttivo di funzionare o di non funzionare della politica, ma il rapporto tra la cosiddetta autonomia della magistratura e la manifesta eteronomia della politica in tutte le questioni di diritto, che incrociano il modo di funzionare e di non funzionare della giustizia e il "lavoro" dei giudici.
La vicenda che coinvolse Tortora e come lui centinaia di persone, finite per errore o per caso nelle retate a strascico della giustizia per pentito dire, sommava tutti gli elementi che hanno fatto di quella italiana una giustizia anomala e ingiusta. La grandiosità (tutto maxi: gli arresti, i processi, gli errori), in primo luogo. Poi l'eccezionalità di inchieste e processi condotti sul filo dell'arbitrio più plateale, con il "libero convincimento del giudice" affrancato da ogni criterio di ragionevolezza e diligenza. Infine l'esemplarità, in cui Tortora è finito intrappolato, dovendo rappresentare in primo luogo la prova che la giustizia anti-camorra non guardava in faccia nessuno, neppure l'uomo di TV di maggiore successo.
Il referendum sulla responsabilità civile dei giudici fu la pietra dello scandalo, perché rivendicò l'esigenza di una "normalità" che confliggeva con il principio dell'autogoverno corporativo delle toghe, essendo l'irresponsabilità una sorta di attributo della speciale immunità politica della "categoria". A distanza di decenni, siamo ancora lì, davanti allo stesso problema irrisolto.
Anche Tortora è stato un eroe borghese, come Giorgio Ambrosoli. Uno che non era stato al suo posto, ma "se l'era andata a cercare". Non protestò la sua innocenza, ma la mostruosità del sistema giudiziario all'ingrosso. La sua battaglia per una giustizia giusta e rispettabile e non solo temibile - condotta con il marchio d'infamia del camorrista di complemento e per un certo periodo pure con una condanna a dieci anni sul groppone - è stato un azzardo ad altissimo rischio, sia processuale che politico.
I suoi accusatori togati e non togati - a partire dai giornalisti che brindarono alla sua condanna - non rischiarono nulla, né durante, né dopo. Il più famoso di loro, il pm Diego Marmo che lo definì "cinico mercante di morte", ha fatto come molti dei suoi colleghi un'ottima carriera e ieri, nel trentunesimo anniversario dell'arresto di Tortora, è stato nominato assessore alla legalità dal sindaco renziano di Pompei, Nando Uliano, a dimostrazione che la storia ha più fantasia e ironia del più fantasioso e ironico degli uomini.