logo editorialeCosa lega tra loro Uber (l'applicazione per telefonini che mette in contatto utenti e conducenti di vetture a noleggio, ma da poco anche automobilisti privati) e i giacimenti di petrolio nel mare Adriatico? Facile, sono temi su cui l'Italia offre il suo spaccato peggiore: da un lato, il condizionamento esercitato da interessi corporativi e istinti reazionari rispetto alle grandi chance di sviluppo e innovazione della società e dell'economia italiana; dall'altro, le difficoltà incontrate dalla politica nel fare il suo mestiere, che - ricordiamo - sarebbe quello di promuovere l'interesse generale a prescindere da quelli particolari.

A Milano, nello scorso fine settimana, è andata in scena la protesta dei tassisti nei confronti del servizio Uber. Prima hanno impedito con lanci di uova e cori da stadio che la responsabile di Uber Italia e l'assessore comunale alla mobilità partecipassero a un evento pubblico, poi hanno organizzato uno sciopero bianco propedeutico a forme di protesta più accese. Anziché reagire competitivamente alle innovazioni del mercato della mobilità urbana, i tassisti rivendicano di fatto un incomprensibile monopolio, usando peraltro argomenti deboli e antistorici.

Oggi accusano la "multinazionale" Uber, a breve presumibilmente cercheranno di limitare l'esplosione a Roma e Milano di Car2go e di servizi simili, e non è escluso che tenteranno di convincere il regolatore nazionale e locale a mettere paletti e vincoli alla concorrenza e alla libertà di scelta dei consumatori.

Nell'Adriatico, come ha sottolineato sabato scorso Romano Prodi dalle pagine del Messaggero, sta iniziando un'avventura che potrebbe cambiare radicalmente gli scenari geopolitici dell'area: la Croazia ha deciso di sfruttare i giacimenti petroliferi esistenti in mare aperto.

Si tratta di riserve di petrolio presenti nelle acque territoriali sia del paese balcanico che dell'Italia, ma che rischiano di essere sfruttate solo dalla Croazia, considerata la nostra bravura nel non decidere, nel far prevalere la paura rispetto alla razionalità, nel non sentirci in grado di fare ciò che un grande paese deve fare: governare i rischi industriali ed ambientali, anziché lasciarsene paralizzare.

Se la politica economica italiana è ormai solo un misero tentativo di ridistribuire fiscalmente una torta sempre più piccola, senza alcuna ambizione a farla crescere, ciò è dovuto proprio all'incapacità italica di aprire le porte alle novità. Negli ultimi venti anni abbiamo lasciato emergere e consolidarsi il partito trasversale (ma sempre meno trasversale) del No-tutto: No-Tav, No-Mose, No-ogm, No-euro, No-Expo e tutti gli altri movimenti e iniziative simili che hanno popolato recentemente la politica.

Luddisti contemporanei, falsi ambientalisti, nazionalisti mascherati e complottardi da operetta hanno dominato e dominano la scena pubblica italiana, godendo del favore di una certa stampa accondiscendente e beneficiando del campo lasciato libero da partiti politici illusi di poter vivacchiare eludendo i temi cruciali per la crescita economica.

È chiaro che, perché possa prevalere la cultura del Sì (che significa sì rischio, ma anche responsabilità e scommessa sul futuro) non basta provare a tranquillizzare un'opinione pubblica spaventata e persuasa dall'idea che per non sbagliare nulla e non rischiare nulla - sul piano della corruzione, della salute, dell'inquinamento ambientale... - sia meglio non fare nulla.

Occorre spiegare in modo chiaro, a costo di accarezzare contropelo le tendenze prevalenti dell'opinione pubblica, che, continuando a non fare nulla, l'Italia non corre il rischio, ma va incontro alla certezza di morire, e non per eutanasia.

No petrolio