Per quanti dubbi si possano nutrire della qualità dell'accordo tra Renzi e il Cav., è lecito purtroppo averne ben pochi sulle reazioni che lo "scandaloso" patto del Nazareno ha scatenato dentro e fuori dal PD.

Alla grande trattativa sulle riforme si sono presentati tutti, Renzi e Berlusconi compresi, imbracciando le retoriche consunte del luogocomunismo elettorale e imbastendo una discussione surreale, da cui sembrava emergere che le fazioni (da una parte la strana coppia e i loro sostenitori, dall'altra gli esclusi dal vertice risolutivo) fossero tenute insieme da una sorta di pensiero negativo, più che da un'idea costruttiva o (parola grossa) costituente del processo di riforma.

I favorevoli all'accordo denunciavano "il ricatto dei piccoli partiti", cui invece può addebitarsi ben poco dell'instabilità e dell'inefficienza della democrazia italiana, nella Prima come nella Seconda Repubblica, mentre i contrari resistevano rumorosamente all'idea che la riforma lasciasse inalterate le cosiddette liste bloccate e non reintroducesse "la possibilità per gli elettori di scegliere i propri eletti", cioè le preferenze, che rappresentano al contrario il più formidabile incentivo alla corruzione e il meccanismo più potentemente criminogeno e anti-rappresentativo del gioco elettorale.

L'esito della trattativa ci consegna però, da una parte, un aggiustamento del Porcellum ragionevole e potenzialmente efficiente (forse il migliore, tra i sistemi oggi possibili cioè votabili da questo Parlamento, non certo quello idealmente preferibile per "normalizzare" la competizione politica in un Paese politicamente assai poco normale e competitivo) e, dall'altra parte, i patetici cahiers de doléances della minoranza interna del PD, democristianamente convertita, in imbarazzante compagnia (Grillo, Alfano, Casini, Meloni, Mauro, Salvini...), al voto di preferenza come dogma democratico. In mezzo, le non peregrine perplessità delle forze minori sull'entità e la natura degli sbarramenti elettorali, che l'accordo Renzi-Cav. continua a differenziare, a seconda di chi stia dentro o fuori dalle coalizioni maggiori, in base a una logica politicamente discutibile e costituzionalmente sospetta.

Nella sostanza la mappa degli accordi e dei disaccordi ci presenta comunque un Berlusconi disponibile a bere l'amaro calice del doppio turno (sia pure eventuale) e una sinistra PD pronta invece a rinnegare il favore per il doppio turno pur di confermare la propria idiosincrasia ideologica alle trattative con il Caimano. Ne esce insomma un Berlusconi inopinatamente patriottico e una sinistra PD intrappolata nella coazione a ripetere dell'antiberlusconismo "a prescindere" e ottusamente ruffiana col gli umori più cattivi dell'elettorato italiano.

Il Cav. rinuncia alla legge "costituzionalizzata" dalla Consulta, che condannava l'Italia alla grande coalizione e gli riconosceva di fatto una sorta di golden share sulla formazione dei governi, per una legge con cui difficilmente potrà vincere al primo turno, e quasi sicuramente finirebbe per perdere al secondo. La sinistra bersaniana non rinuncia invece a nulla del repertorio tardo berlingueriano: la differenza antropologica, il moralismo a geometria variabile, la subordinazione della ragione di stato alla ragione di partito e di classe... È forse presto per illudersi della generosità del Cav., non però per deludersi della forma e della sostanza opportunistica della "resistenza" anti-renziana. Questa, al momento, è la morale della favola.