In Italia esistono purtroppo specifici incentivi istituzionali e culturali alla corruzione. In primo luogo, un eccesso di intermediazione burocratica e di discrezionalità nell'esercizio del potere pubblico e un difetto di fiducia morale nell'efficienza (e perfino nell'utilità pratica) della rule of law.

mafia capitale

I "vizi" dello Stato e quella di un'opinione pubblica diffidente del vantaggio che si potrebbe derivare da un rapporto onesto tra i fini e i mezzi di competizione sociale ed economica hanno portato a una corruzione endemica e in una certa misura strutturale, più che un modo di violare o aggirare le regole, un modo di regolare e aggiustare i conti e una forma di "equità" particolaristica opposta all'iniquità del mercato.

La corruzione, come il debito pubblico, è stato il modo in cui in Italia si sono storicamente privatizzati i profitti e socializzate le perdite e dunque è stata una questione politica non solo nel senso del coinvolgimento del personale politico, ma in quello del governo delle cose politiche, cioè dei rapporti di forza e di consenso "democratici" tra elettori ed eletti e tra Stato e cittadini. A questo rapporto intrinseco tra politica e corruzione appartiene anche la consustanziale relazione tra la complicità e lo scandalo, cioè tra la questione morale e quella immorale, tra la corruzione di massa e la ribellione di massa alla corruzione, e quindi tra i mariuoli e i giustizieri, tra i marichiesa e i toninidipietro, tra i Fiorito del prima (a tirare monetine davanti al Raphael) e i Batman del dopo (ad arraffare "la qualunque", in modo compulsivo), come maschere della medesima commedia.

Le convulsioni di una partitocrazia bulimica e suicida, tra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni '90, anziché portare a una riforma hanno portato all'ordalia e all'esibizionismo moralistico. Dopo vent'anni siamo ancora allo stesso punto e allo stesso equivoco di fondo sulla natura non oggettiva e politica, ma soggettiva e morale della corruzione. Come vent'anni fa, si affollano inquisitori e guaritori, in un esercizio di cattiva coscienza che è anch'esso politico in un senso meno ristretto di quanto si voglia far credere e non riguarda solo la classe politica interessata a scampare al redde rationem, ma il popolo aizzato a giudicare la Casta.

Siamo tornati a classificare gli scandali dell'Expo, del Mose e di Mafia Capitale secondo lo schema apologetico società buona-politica cattiva, come durante Tangentopoli. Dopo l'uso politico delle mazzette, l'uso ideologico della corruzione. Anziché dirci la verità, siamo tornati a esorcizzarla confidando nel potere taumaturgico delle manette e della giustizia à la carte, che è l'altra faccia della stessa medaglia. Pene più alte, prescrizione più lunga. E nuovo fiato all'idea bellica e vendicativa del diritto penale e al protagonismo politico-giudiziario, che aprirà – c'è da scommetterci – un nuovo via vai tra gli scranni dei tribunali e quelli delle istituzioni.

Mancava solo un regime premiale per i corrotti pentiti – che aprirà un rigoglioso mercato parallelo di ricatti e maldicenze – per dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che quanto più tutto si fa grave, meno si fa serio, e che l'Italia nelle situazioni peggiori tende a dare non, come si dice, il meglio, ma il peggio di sé.

@carmelopalma