Il risultato del referendum non è stato rivoluzionario. Gli elettori, per lo più, hanno votato come richiesto dai rispettivi partiti. L'establishment presenta il ritorno al proporzionale, dopo Brexit e Trump, come lo sdoganamento in Italia del ‘politicamente scorretto’. Ma quando il ‘politicamente impossibile’ – come la vittoria di Trump – sbarcherà davvero in Italia, che cosa succederà? E quali alternative ‘impossibili’ alla deriva populista ha senso oggi immaginare?

Guzzetta Renzi

Da un po’ di tempo a questa parte è maturata la convinzione che le vicende politiche, sia a livello nazionale che a livello sovranazionale, sfuggano alle dinamiche tradizionali. Le democrazie creano sorprese fuori dal recinto del prevedibile. Meglio detto, sono gli elettori a creare sorprese, rendendo possibile l’inimmaginabile: Brexit, la vittoria di Trump, l’ascesa di Macron (al di là di quello che sarà l’esito finale).

Tutte le certezze vacillano e con esse il linguaggio che le accompagnava. La svolta americana è un colpo all’establishment politico, ma anche a quello linguistico. Il politicamente “corretto” dei comportamenti elettorali è stato travolto insieme al politicamente “corretto” della propaganda elettorale.

Etichettare tutto ciò come l’età dei populismi mi sembra un po’ prematuro e anche semplicistico. Ma probabilmente questa definizione, nella sua semplicità, coglie almeno l’aspetto “destruens” del processo in corso, la rottura di certi argini culturali e comportamentali.

Le ragioni di tutto ciò sono molto profonde e non è questa la sede per un approfondimento che va alle origini della democrazia nell’età contemporanea, alla sua connessione storica con la promessa redistributiva e di eguaglianza sociale, e all’attuale delusione generalizzata per l’impotenza democratica di realizzare quella promessa originaria.

Molto più terra terra, mi interessa considerare il grande abbaglio che noi, in Italia, rischiamo di prendere. Infatti, dopo il 4 dicembre e la sonora bocciatura della riforma costituzionale, si è diffusa l’opinione che quella fosse la nostra “Brexit”, le nostre “elezioni americane”. La democrazia ci ha fatto la sua sorpresina: dopo quarant’anni di riforme tentate, al dunque, il corpo elettorale ha detto un chiassosissimo no.

Il politicamente scorretto è stato sdoganato, dunque. E quel politicamente scorretto, ostracizzato per oltre vent’anni, si chiama “ritorno al proporzionale”. Oggi finalmente si può dire, il tabù è caduto. Il 4 dicembre ha consegnato una nuova verginità per la democrazia delle grandi coalizioni, degli accordi tra i partiti solo dopo le elezioni, della legge elettorale (il proporzionale) che fotografa i rapporti di forza e distribuisce i posti al tavolo dei negoziati.

Non so se questa sia una conseguenza intenzionale del voto del 4 dicembre. Cioè, non saprei dire se gli elettori volessero esattamente questo. A occhio e croce mi sembra che questa non sia stata la motivazione principale della maggioranza. Ma certamente è una lettura che si è a posteriori affermata (l’ennesima post verità?).

Il paradosso di tutta la situazione, che rende ancora una volta l’Italia così straordinariamente sorprendente e perversamente affascinante, è che la lettura anti-establishment del voto del 4 dicembre (in linea con le “nuove” tendenze politiche planetarie) viene reinterpretata dalla stragrande maggioranza dell’establishment per veicolare come icona del politicamente scorretto (e dunque un valore) una soluzione che coincide con quella in auge nell’epoca in cui l’establishment era al suo apogeo, la Prima Repubblica.

Se la politica mondiale diventa postmoderna, quella italiana è in prima fila. Con buona pace di quei pezzi di classe politica che, in buona o cattiva fede, pensano veramente che il ritorno al proporzionale sia il male minore per salvare il Paese dall’ondata populista, io non credo che la nostra “Brexit” ci sia ancora stata. E dunque non penso che il 4 dicembre sia la data di un nuovo inizio, di una svolta definitiva. Credo sia una tappa ambigua di un processo sempre più fuori controllo.

Quale che sia la legge elettorale con cui andremo a votare, una cosa mi pare evidente: la Prima Repubblica non può tornare se non, come si dice per la storia, nella sua versione tragicamente farsesca. I partiti del Novecento non ci sono più e non è qualche scissione che può avviare il processo della loro rigenerazione.

Quello che veramente sorprende, in tutti i dibattiti a cui si assiste intorno al futuro del sistema politico e della legge elettorale, è che sembra si ignori, o forse semplicemente si rimuova, l’unico vero dato comune degli eventi che hanno originato l’idea che siamo ormai in una nuova era. A guardare bene, insomma, cos’è che accomuna ad esempio Brexit e Trump? La totale imprevedibilità dei comportamenti elettorali, la rottura degli argini delle reazioni prevedibili, la materializzazione dell’impossibile.

Ecco: se si guarda al referendum del 4 dicembre, tutto si può dire meno che sia stata la materializzazione dell’impossibile. Direi piuttosto il contrario. Il risultato è assolutamente fedele, punto più punto meno, alla ripartizione dell’elettorato per linee politiche. Il 4 dicembre è stato una grande elezione politica nazionale dai risultati abbastanza prevedibili. La riforma è stata bocciata proprio perché l’impossibile non si è materializzato.

Forse è proprio questo che tranquillizza le élite che scommettono sul ritorno al proporzionale. L’Italia, alla fine, non è né la Gran Bretagna, né gli Stati Uniti. E se al Comune di Roma qualcosa è sfuggita di mano, questa è una ragione di più per abbattere ogni residuo maggioritario, competitivo, divaricante dei sistemi elettorali. La tesi è semplice: la Raggi a Roma, nella Prima Repubblica, non sarebbe mai stata sindaco; la Raggi a Roma, con il proporzionale, non avrebbe mai vinto.

Alla fine questo è il punto cruciale. L’onda della neodemocrazia eccentrica, dove l’impossibile può materializzarsi, travolgerà l’Italia? Oppure la nostra epocale diversità ci metterà al riparo da simili effetti?

Dietro al dibattito politico e istituzionale c’è solo questa domanda.
Dietro al dibattito sulla legge elettorale c’è solo questa domanda.

E la maggior parte delle forze politiche, forse per un istinto di autoconservazione, tende a credere che l’onda si arresterà ai confini. Ci sarà qualche smottamento, ma lo stellone reggerà… Come sempre nel Paese che si arrangia e che non ha mai avuto vere rivoluzioni.

Per questo, tutto sommato, la soglia del 40 per cento per ottenere il premio di maggioranza non spaventa. La convinzione che nessuno la raggiungerà esime dall’ingaggiare una battaglia, che sarebbe molto cruenta e probabilmente inutile, per eliminare il premio e stabilire un sistema proporzionale puro. È per questo che ci si concentra più sulla parte “proporzionale” della legge (soglie minime, pluricandidature, liste bloccate, preferenze). È per questo che l’idea di un premio alla coalizione non attecchisce (renderebbe più probabile il raggiungimento del 40 per cento e sbarrerebbe la strada al ritorno al proporzionale che si può vendere come il “politicamente scorretto” della nuova politica italiana).

C’è solo un piccolo dettaglio. La materializzazione dell’impossibile sfugge all’establishment. È questa la sua caratteristica. È questo che ha reso la Brexit e Trump delle vicende epocali e non dei semplici risultati elettorali. Qualunque siano le decisioni della politica, nessuno può impedire che l’impossibile si materializzi in un’epoca in cui l’impossibile diventa possibile.

Forse nell’affrontare il tema delle riforme la politica dovrebbe essere più consapevole che il vero segno distintivo di quest’epoca, il vero fatto “politicamente scorretto”, è che il politicamente impossibile è diventato possibile. E di fronte a tale evenienza non si reagisce difensivamente erigendo una linea Maginot che appartiene all’epoca della politica “possibile”, ma si cerca di mettere in campo una risposta che rappresenti un’alternativa credibile e adeguata all’impossibile che si vorrebbe evitare.

So che – per le nostre tradizioni di politica paternalistica - non ci siamo abituati, ma questa volta i politici farebbero bene a non sottovalutare gli elettori.