carcere grande

Sabato 25 maggio, visitando il carcere di Rebibbia (Casa Circondariale, Nuovo Complesso) grazie ai Radicali Italiani, motore politico dell'iniziativa, ho toccato con mano le problematiche strutturali di un sistema che necessita di politiche pubbliche sempre più urgenti.

Ci troviamo di fronte a quella che è a tutti gli effetti un'emergenza nazionale, troppo a lungo sottovalutata da istituzioni e partiti. L'aspetto che mi ha maggiormente colpito, in positivo, è stato la grande disponibilità dei detenuti a condividere priorità ed esigenze: fortemente interessati a raccontare e soprattutto a mostrare quel che non va, dalle loro valutazioni è emerso un quadro piuttosto lucido e chiaro.

A Rebibbia, come in buona parte delle carceri italiane, il problema pratico forse principale è quello del sovraffollamento. A fronte di una capacità regolamentare di meno di 1200 posti, i detenuti sono più di 1500. In molte celle non sono garantiti i 3 metri quadri calpestabili per ogni persona, e spazi e dimensioni risicate impressionano: più celle, pensate per quattro detenuti, hanno sei posti letto.

Altre questioni tecniche affrontate sono poi legate alla mancanza di personale giudiziario: gli operatori, che ringrazio per averci guidato con molta professionalità, si trovano a lavorare in contesti difficili e a gestire situazioni che necessiterebbero di un numero notevolmente superiore di agenti. Sempre su questo versante, legato cioè alla scarsità di addetti e professionisti, da segnalare è anche la penuria di interventi per alleviare fragilità e disturbi mentali dei detenuti, che dà la misura dell'inadeguatezza di certi programmi di policy.

La fatiscenza degli spazi fisici va dunque di pari passo con la grande difficoltà che esiste nel garantire alcuni rilevanti servizi, anche alla luce di problemi psicologici e mentali sempre più diffusi. In questa situazione generale, che va chiaramente molto oltre Rebibbia, il Parlamento potrebbe muoversi con tanti interventi più o meno mirati. Si dovrebbe in primis ridurre l'utilizzo dello strumento penale, andando verso la direzione della depenalizzazione di alcuni reati, eliminando poi il carcere per detenuti in attesa di giudizio che non siano realmente e socialmente pericolosi, incentivando e incrementando pene alternative al carcere.

Andrebbero, ancora, approvati provvedimenti urgenti di amnistia e indulto con il fine di ridurre, appunto, la popolazione carceraria. Servirebbe infine un piano straordinario per rafforzare i corpi di polizia penitenziaria. Esiste poi una carenza di lavoro e attività rieducative, che diventa un problema sia per i detenuti che per i detenenti, visto che la collaborazione con imprese esterne alle carceri è bloccata da limiti burocratici e assenza di formazione.
Senza lavoro è difficile costruire percorsi che allontanino dalla recidiva, e in carcere il lavoro è effettivamente poco, nonostante sia fondamentale nel percorso di reintegrazione sociale: il 35% dei detenuti italiani lavora a tempo parziale o ridotto, dunque per pochi giorni o addirittura ore a settimana, con guadagni che consentono solamente di pagare il mantenimento, cioè le somme da restituire allo Stato a fine pena.

Solamente meno del 5% lavora alle dipendenze di privati, con la possibilità di mantenere la professione anche una volta usciti di prigione. Circa due detenuti su tre non hanno accesso a nessuna forma di lavoro, mancando insieme ad esso, come detto, la formazione professionale (di competenza regionale, che le Regioni spesso non finanziano).
Colpisce poi aver inteso che oggi in Italia sono 20 le mamme in carcere con figli al seguito (23 in totale), le quali spesso convivono tra assistenza sanitaria carente, bagni non separati, strutture fatiscenti, sporche e antiquate e assenza, in più carceri, addirittura di acqua calda. Un primo e significativo messaggio potrebbe essere infine abolire gli istituti penali minorili, vietando la permanenza di bambini negli Istituti a custodia attenuata.

Ma il dato in assoluto più drammatico quando si parla di carceri del nostro Paese è purtroppo legato al numero dei sucidi. Il 2022 è stato l'annus horribilis dei suicidi in carcere, con 85 persone che si sono tolte la vita, probabilmente il numero più alto della storia repubblicana, sicuramente il più elevato da quando esiste un sistema di monitoraggio su scala nazionale (dal 2000, pur essendo disponibili analisi a partire dal 1990). Uno ogni quattro giorni e mezzo, con un'incidenza 20 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. Una tragedia di Stato, spesso trascurata dagli stessi organi di stampa e dal mondo dell'informazione.

I profili di chi muore (si tratta in larga parte di persone che avrebbero dovuto scontare pene brevi, o che erano entrate da poco in carcere) segnalano la brutalità di un sistema che non aiuta a reintegrarsi ma porta alla disperazione, nel vuoto dell'impossibilità di un pieno reinserimento nella società.

I dati diventano ancora più impressionanti se si pensa che, sempre nel 2022, sono stati sventati dagli agenti ulteriori mille e più tentativi di suicidio. Il 2023 ha continuato a registrare un numero di suicidi nelle carceri elevatissimo, con una tendenza in corso nel 2024 che spaventa: lo documenta il rapporto di fine aprile dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, arrivato alla ventesima edizione.

L’organizzazione, che si occupa di tutela dei diritti e delle garanzie nei sistemi penale e penitenziario, pone appunto l’accento sui tanti problemi che caratterizzano il sistema detentivo in Italia. Il primo è la conferma del tasso di affollamento record: al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti.

Per quanto riguarda i suicidi nel solo 2023, sono state almeno 70 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un Istituto di pena. Nei primi mesi del 2024, almeno 30. “Almeno” perché numerosi sono ulteriori decessi con cause ancora da accertare. Seppur in calo rispetto all’anno precedente, i 70 suicidi del 2023 rappresentano un numero elevato rispetto al passato, e il più elevato dopo quello del 2022. Guardando agli ultimi trent’anni, solo una volta si è andati vicini a questa cifra, con 69 suicidi nel 2001. Ancora più allarmante è il dato relativo al 2024: tra inizio gennaio e metà aprile si parla di un suicidio accertato ogni 3 giorni e mezzo. Nel 2022, a metà aprile, se ne contavano 20.

A fine anno potremmo rischiare di arrivare a livelli ancor più drammatici rispetto a quelli dell’ultimo biennio. Nei mesi estivi il caldo e l'interruzione delle attività negli istituti penitenziari, quali scuola e volontariato, isolano le persone detenute e, in certi casi, favoriscono i suicidi, che proprio in questo periodo raggiungono numeri elevati.
L'auspicio più forte che si può fare è che a partire dalla società civile possa mutare il paradigma stesso della concezione carcerocentrica della pena, che ha a che fare con una mancata accettazione del concetto di rieducazione, retaggio storico e culturale del nostro Paese.

Il concetto di rieducazione non va ancora a braccetto con l'esigenza di una giustizia giusta degna dello stato di diritto, e quindi della dignità dei detenuti. Se è vero che il grado di civiltà di uno Stato si misura osservando la condizione delle sue carceri, in Italia non siamo messi bene.

La funzione rieducativa del carcere è spesso violata in maniera sistematica: se prioritario è migliorare la vita all'interno degli istituti, garantendo un accesso ai diritti fondamentali per tutti e un livello di qualità della vita stessa sufficiente e dignitoso, importante è anche adottare modalità che possano far maturare una nuova convivenza e un diverso modo di stare dentro gli istituti, come ad esempio la liberalizzazione di relazioni affettive, chiamate, videochiamate e un regime di celle aperte con progettazione ampia che porti le persone recluse ad essere impegnate in attività di studio, lavoro e ricreative sempre più coordinate e organizzate.