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Tutto ciò che è “male” merita di diventare un reato? Tutte le possibili conseguenze di fenomeni sociali angoscianti e potenzialmente pericolosi – dai rave party di Modena ai pellegrinaggi dei nostalgici a Predappio – implicano necessariamente una tutela penale, perché suscitano fastidio e scandalo nelle persone (diversamente) dabbene?

L’isteria panpenalistica, come tutte le nevrosi e le ossessioni, è la reazione abnorme a una preoccupazione normale, un riflesso psicologico a uno stato di ansia e di malessere psicologicamente comprensibile per la sua causa, ma non giustificato politicamente per il suo effetto.

A cronicizzarla non concorre la semplice paura umana – “arrivano i fascisti o i drogati e chissà cosa faranno…” – ma quella sorta di trattamento cinematografico che la retorica politica apporta al materiale indifferenziato del disagio collettivo. È l’ideologia che dà un ordine gerarchico e morale alle paure, che le elegge e legittima come sintomi di una malattia sociale generale e indicatori di un problema che esige una reazione controffensiva, perché dotato di effettiva offensività civile.

È un meccanismo usato a destra come a sinistra, perché la paura è un sentimento neutrale e quindi si presta a declinazioni differenti. Che al nemico si dia un volto da destra (i drogati, i clandestini) o da sinistra (i fascisti, i colletti bianchi), a rilevare è solo che la paura stessa sia disincarnata e ideologicamente connotata in un modo convenzionale. Ecco il tuo nemico: fanne tesoro.

Tutto questo avviene, per lo più, su un piano estremamente sensibile, che è quello del diritto penale, cioè della possibile e necessaria limitazione dei diritti fondamentali, non di scelte politiche che implicano una qualche discriminazione tra le preferenze e le opportunità dei cittadini, ma non incidono così profondamente sulle loro libertà personali. Il sistema penale, in una democrazia, non può diventare l’ordinatore della routine. Invece in Italia lo rimane: a furor di popolo. Il potere politico è innanzitutto potere di galera.

La fiducia nella legislazione penale non è solo il segno di una eccessiva sfiducia nella libertà, ma della ancora più eccessiva confidenza con la legge della forza, contro la forza della legge. Non è una questione di stile, ma di sostanza. Chi usa, facendone propaganda, la giustizia penale in luogo di altre forme di regolazione giuridica di fenomeni potenzialmente problematici non solo rinuncia all’idea che i delitti e le pene siano una extrema ratio, ma abdica a un ruolo politico che per essere legittimo e riconosciuto, per non dar luogo a una permanente e pendolare guerra civile, non può fondarsi sull’uso “igienistico” delle manette.

In Italia siamo ormai così alienati o corrotti, così viziosamente adusi all’ebbrezza della galera altrui come solo possibile risarcimento del nostro scontento, che a seconda dei campi che ciascuno ritiene di dovere occupare – di destra o di sinistra, di sopra o di sotto – lo stesso atto appare sotto la luce della giusta vendetta o della ingiusta ritorsione, a misura del nemico che si ritiene di dovere punire o dell’amico che si pensa di dovere salvare. Ma si sta (quasi) tutti all’interno di questo schema.

Dovremmo faticosamente reimparare che la legislazione penale non è il Sacro Graal della politica, non è un dispositivo escatologico che separi i buoni e i cattivi della società, non è il crisma sacramentale del potere, ma un pezzo limitato dell’ordinamento dello Stato che tanto più si espande tanto più erode, per tutti, spazi di libertà e di sicurezza.

Quelli cui la galera ancora suscita orrore e disgusto e non una perversa libidine di vendetta dovrebbero essere onorati come santi della Repubblica, invece sono i monaci pazzi che continuano a intimare “Fratello ricordati che morire” ai morti insepolti della nostra democrazia.

Ovviamente qualunque riferimento al primo atto del nuovo esecutivo – un decreto monstre eversivo (ergastolo), controriformista (riforma Cartabia) e ruffiano (reato di “invasione) – non è puramente casuale.