hijab protesta grande

Il dibattito sull’hijab è appassionante come talvolta può essere appassionante il dubbio più delle convinzioni. Si tratta di bilanciare interessi e valori rispetto ai quali non esistono soluzioni “giuste in assoluto” ed più che naturale confessare di avere poche certezze. È un caso tipico in cui tanti nel mondo libdem si sentono più repubblicani (nel senso francese) che liberali, difendendo convintamente il pluralismo mentre guardano con preoccupazione al multiculturalismo.

Al netto della soluzione del Senato francese, proviamo a ragionare in astratto: ognuno si veste come vuole con l’unico divieto sul mascheramento che renda difficoltoso il riconoscimento della persona? Una soluzione istintivamente liberale suggerirebbe di sì ma le cose sono un po’ più complesse. Se si diffondesse l’abitudine di andare in giro con abiti delle SS, nessuno si farebbe problema a vietarle. Se presso alcuni gruppi sociali si diffondesse l’abitudine a far andare in giro i figli maschi non brillanti a scuola con cappelli con le orecchie da asino, nessuno avrebbe allo stesso modo dubbi a vietarlo. Insomma i vestiti non sono solamente vestiti, e quelli che a prima vista sono equivalenti pezzi di stoffa possono riflettere significati rilevanti.

Ci sarebbero poi considerazioni da fare anche sulla libertà di religione, presentata spesso come un monolite che si autogiustifica. Anzitutto, perché riteniamo assurdo che esistano bambini di destra e di sinistra, socialisti, sovranisti, conservatori e progressisti mentre diamo per scontato che esistano bambini di diverse fedi religiose? Qualcuno potrebbe rispondere che si tratta di un elemento culturale, ma si risolve in una considerazione molto parziale. Un dato culturale attiene per esempio alla nazionalità (e ha senso parlare di bambini italiani, francesi ed eritrei) ma la fede religiosa è un aspetto ben diverso.

È pieno di persone che hanno vissuto conversioni sulla via di Damasco o che in un istante hanno perso la fede, proprio perché questa comporta una adesione consapevole a un sistema di credenze. Non ha invece alcun senso pensare che qualcuno possa “deitalianizzarsi” in un istante. Si replicherà che si può essere educati a una fede. Certo, ma come si può essere educati al dogma della Vergine Maria così si può educare un bambino a credere che la proprietà privata sia un furto: nondimeno risulterebbe ridicolo censire “bambini comunisti”.

Ecco, uno Stato che si basi sui valori repubblicani di Libertà, Eguaglianza, Fratellanza, come la Repubblica francese, fa bene a porsi questi temi anche a livello educativo, soprattutto, ma non solo, quando si parla di bambini. Se due Stati avessero le stesse identiche leggi in ordine alla libertà di vestirsi, ma in uno le donne girassero con la minigonna e nell’altro girassero sempre con un “burkini” potremmo dire che si tratta dello stesso tipo di società perché in entrambe le donne sono liberissime di vestirsi come pare a loro? È illiberale che uno Stato favorisca un certo modello di società e che il suo sistema educativo voglia entro certi limiti tutelare i bambini dalla religione, educare a una certa concezione anche del corpo, del sesso e della parità di genere? Queste considerazioni naturalmente non vogliono portare necessariamente ad approvare divieti sull’hijab, perché ci sono altri valori e interessi da bilanciare (a maggior ragione per un semplice velo).

Sono solo tesi ad argomentare che un paradigma “liberale puro” potrebbe non bastare, e che il progressismo è certamente pluralista, ma in realtà tutt’altro che relativista. Probabilmente aveva ragione Carl Schmitt nel parlare di “tirannia dei valori”: esiste un livello in cui anche il decisore più laico arriva a far prevalere in qualche modo alcuni valori su altri. E per quanto riguarda la tirannia dei valori, non sarebbe così illiberale spingersi a dire che un progressismo che ritenesse di fare dell’hijab un proprio simbolo è un progressismo con cui si sente di non avere niente a che fare.