L’identitarismo islamico femminile, una sfida nell’Occidente
Diritto e libertà
Quest'anno Giuliana Sgrena ha dato alle stampe, per la casa editrice il Saggiatore, Il libro "Donne Ingannate. Il velo come religione, identità e libertà".
Il testo ha un'impostazione schiettamente giornalistica e ci racconta, attraverso il simbolo del velo islamico, le diverse esperienze e le cronache di lavoro della storica inviata de Il Manifesto, impegnata da anni a monitorare e a raccontare la vita delle donne in Africa, in Medio Oriente e nei Balcani.
Il saggio, però, ed è emerso chiaramente in un recente dibattito che l'Arci-Samarcanda ha tenuto a Reggio Calabria, può essere letto anche come un piccolo manuale di teologia-politica, nel senso della rappresentazione di una analogia di forme - di occupazione di posizioni di potere - tra rapporti teologici e figure di dottrina dello Stato.
Non solo, quindi, il rapporto "classico" tra l'unico Dio in Cielo e l'unico monarca sulla Terra ma, più modernamente, il rapporto tra ghettizzazione sessuale imposta dalla religione e l'identità culturale/etnica introitata come essenziale in un contesto di secolarizzazione progressiva, vissuta come tradimento.
Perché, se è vero che le ragazze in Persia prima della rivoluzione di Khomeini godevano di libertà e diritti simil occidentali, se è vero che le ragazze algerine prima del repressivo "Codice di Famiglia" del 1984 vivevano una sostanziale parità tra i sessi di fronte alla legge, se è vero che l'Afghanistan negli anni '60 e '70 del Secolo Breve sembrava aver sepolto il retaggio tradizionale di servaggio femminile, è pur vero che - dopo la re-islamizzazione scatenata a livello globale dall'ideologia universalistica della Umma khomeinista, dopo l'influsso Wahabita ed estremista prodotto dai petroldollari sauditi, all'esito dei fallimentari tentativi occidentali di "esportare" con la forza, e con il rovesciamento di regimi, i valori "democratici" di uno Stato di Diritto tradito dalla guerra neo coloniale - oggi molte giovani donne islamiche e europee, figlie e nipoti di generazioni secolarizzate, sfidano il "relativismo" europeo "scegliendo" di indossare il velo (nelle diverse declinazioni: chador e hijab) come affermazione identitaria e esaltazione di un'origine mitizzata, di una Patria spirituale vilipesa e mal compresa alle nostre latitudini.
Non sembra strano, quindi, quando la Sgrena nel suo saggio ci dice di giovani donne in Italia e in Francia che mettono il velo contro il parere delle più "anziane" che, magari rientrate nei paesi di origine, il velo non lo mettono e non vogliono che le giovani lo mettano perché : "una volta indossato non si potrà più toglierlo". Il paradosso è tragico e fecondo allo stesso tempo e rimanda ad un conflitto - quello tra libertà di scelta e fede religiosa - che ha imponenti ricadute politiche.
Per sintetizzare, è meglio un regime laico ma dittatoriale (con la presenza di donne ai massimi livelli burocratici del potere, come nell'Iraq di Saddam) o è meglio il vasto consenso popolare dei Fratelli Musulmani che, in Egitto, hanno avuto la parte dei "liberatori" nel segno della Comunità di valori e fede, prima di cominciare ad imporre limiti e freni all'uguaglianza femminile, interpretata come estranea alla propria cultura maggioritaria, provocando così l'intervento autoritario dei militari?
Ed ancora, è giusta l'impostazione laicista francese che, con il suo divieto di ostentazione dei simboli religiosi nei contesti pubblici, rischia di offrire il fianco a chi - con il burqa, ad esempio - denuncia la compressione dell'autodeterminazione del singolo da parte di uno Stato etico e ateo?
O è più corretto il "comunitarismo" anglosassone che lascia le singole comunità etnico/religiose libere di articolare al proprio interno - fatta salva la più generale ed astratta cornice giuridica liberale - le proprie norme tribali, fino all'estremo della proliferazione di fatto delle corti islamiche nel territorio inglese, fino quindi alla disarticolazione dell'unità del soggetto giuridico occidentale?
In "Donne Ingannate" Giuliana Sgrena - che parteggia chiaramente per la posizione "francese" - articola brillantemente una differenza che noi occidentali facciamo fatica a intendere: la contrapposizione, intendo, tra equità e eguaglianza.
Se la seconda, infatti, significa porre l'accento sul singolo, sulla persona, sull'individuo portatore di specificità ineliminabili ma "uguale" e "nudo" di fronte alla legge che garantisce tutti senza distinzioni razziali o sessuali, la prima - l'equità - rimanda ad un equilibrio collettivo, di gruppo, ad un ordine corale che "pesa" differentemente gli apporti sociali, puntando su uno sbilanciamento autoritario compensato, su un risultato pacificato, soprattutto a spese di un "genere", quello femminile, relegato ai margini, diminuito, abusato, e come tale funzionale ad una dinamica di potere che rigetta - come disvalori irreligiosi - la contingenza, la dialettica, il conflitto arricchente.
C'è, poi, un'altra questione centrale, una peculiarità tutta italiana, un genius loci specifico che salta a piè pari ogni interrogativo, ogni dibattito, ogni problematicismo filosofico o religioso: è l'indifferenza della Politica italiana per questi temi, il tentativo miope e codardo di scaricare queste tensioni, ad esempio, sulla singole scuole e classi, sui dirigenti e i docenti, all'interno delle diverse e piccole comunità, fuggendo dal dibattito pubblico e dalla sintesi legislativa, per rifugiarsi nel non detto, nell'ambiguo, nel senso comune, nel chiudere gli occhi di fronte a queste dinamiche sociali - velo o non velo - perché meritevoli di approfondimento e di "cultura", mentre è più facile cincischiare di blocchi navali, di respingimenti, di chiusure di porti, di recinti sicuri e di muri di cartapesta.
E poi c'è la questione del razzismo. È razzista affermare che il velo è oppressione sempre e comunque, squalificando la "scelta" ad implicita e inconsapevole sottomissione? O è razzismo ritenere non importabili i diritti "universali" delle donne e degli uomini, considerando i musulmani incapaci di Libertà e Giustizia, destinati ad altro rispetto all'affermazione globale dello stato di diritto, costretti all'inferno delle donne velate per ottundere il desiderio, a causa di un infantilismo culturale insuperabile ?
Tante domande e poche certezze, è vero! Ma anche questo è il segno fecondo di un tempo, il nostro, che è comunque, nonostante mille contraddizioni, il tempo delle donne. E la temperie epocale emerge dovunque, anche laddove, probabilmente vittime di un auto-inganno, le donne stesse esercitano il loro diritto ad una via identitaria, ad un'affermazione politica. Sono donne - anche quelle velate - che per lo più credono, sperano, si illudono della bontà di valori oppositivi, dialettici e capaci di restituire dignità a generazioni di vinti e di mutili.
È di certo un errore, l'ennesima eclissi della Libertà travolta dall'affermazione della Verità ma è, comunque, un errore commesso in proprio, un ribellismo "positivo" che svela la possibilità sempre incombente di una acquisizione nuova, di un approfondimento a venire, di una sicurezza più benevola e nonviolenta. Ed è questo il ruolo, oggi, dell'Occidente, il compito etico e non etnico di una Politica davvero liberale: indicare l'errore, attendere la resipiscenza, accogliere i fermenti più significativi e vivi per giungere - insieme - al tempo pieno delle donne: quello del vento libero nei capelli, dell'esperienza fisica e mistica della libertà.